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Siamo dei sudici barboni.

Padova – La notte ci è piombata addosso con la gentilezza di una secchiata di acqua gelida dopo che i tuoi  commilitoni ti hanno annodato alla branda con delle calze puzzolenti, e adesso sono con Mauro Pennacchietti – uomo di disarmante, rassicurante tranquillità – coi gomiti sul parapetto di pietra di un ponte sopra il Bacchiglione a guardare un vecchio battellino galleggiare immobile sul pelo nero di un’insenatura silenziosa e glaciale, a guardare nell’interno illuminato del vecchio battellino dal quale, a loro volta, ci fissano due facce inespressive e brecciose,  per un tempo prolungatissimo che però pare non imbarazzare né noi né loro finché la scena assume contorni grotteschi e perturbanti e starebbe bene in un film di David Lynch. Mauro P. sta cercando di spiegarmi, senza traumatizzarmi, come nascono i bambini. Dietro di noi, sui marciapiedi, si muovono ombre sfuggenti dai volti tutti rinculati nel buio dei cappucci, le mani amputate dalle tasche dei piumini di colpo strappati agli armadi. Sembrano tutti appena usciti di prigione. Dal viale della stazione risalgono studentesse con trolley leggeri, la camminata e l’espressione di chi desidera soltanto infilarsi sotto le coperte. Non passano più i tram, le rotaie luccicano e scintillano e si screziano. Ogni tanto il giallo slavato di qualche autobus notturno, il conducente dritto e solo sul suo sedile, il barrito del motore che si svigorisce nella lontananza di una prospettiva: lungo il corso gli unici esseri umani allegri sono certi ragazzi nordafricani che fuoriescono disordinatamente da un kebabbaro muovendo gli arti come se fossero disossati. Per timore di risvegliare forze sopite e pericolose, lasciamo i due abitanti del battello e ci dirigiamo in centro. C’è dell’assembramento di fronte ad un wine bar fumoso, una folla enigmaticamente coibentata che occupa immobile un portico pieno di poltrone di vimini cubiche e sembra evasa da un catalogo di moda autunno inverno e in apparenza sta lì impalata ad aspettare che accada un avvenimento che ostinatamente non accade. Al loro confronto, siamo dei sudici barboni. Io ho il raffreddore, e la febbre, una debolezza non da poco. Passiamo umilmente al loro cospetto. Vedo cappottini spioventi e scampanati, giacchette lucide. Vedo copricapi leziosi. Vedo bicchieri quadrati in cui il ghiaccio non si scioglie. Ascolto discorsi inascoltabili. Vedo nuvolette di nicotina esplodere da labbra ritorte da una posa atteggiata. Sguardi falsamente profondi. Passettini isterici di stivaletti sul selciato. Macchinoni insolenti. Sfoggio di false certezze. Vedo uomini che non sopravviverebbero mai a una campagna di Russia anche se ne sono convinti. Vedo donne con visi da ereditiere che non ti degneranno mai di uno sguardo procedere verso una misera vecchiaia. Vedo vertiginose scollature a V sui petti glabri e lampadati e palestrati di uomini aerodinamici con capelli potati biondo lino che profumano di balsamo alle erbe e si concludono in codini tipo quelli delle gualdrappe. Una volta attraversato l’inferno, più avanti, dopo le grandi bianche vetrine di Zara e Luois Vitton e Bulgari dove i manichini trattengono il respiro, una specie di natural burella illuminata come una beauty farm, il caffè Pedrocchi – caffè storico del risorgimento – è deserto. La poca gente umana che s’incontra ha l’aspetto di uno che viene svegliato bruscamente da un sonno di prima qualità e non ha la forza di prenderti a schiaffi. Sembrano tutti dirti: “Nono guarda, lasciami perdere. Niente da fare, non è proprio il caso. Hai sbagliato serata”. In Piazza Delle Erbe i tavoli dei caffè sono occupati da coppiette cinguettanti o da gruppetti misti di universitari, tutti frastornati, usciti di casa per inerzia e per orgoglio. C’è un’orchestrina jazz che ristora e addolcisce tutto, ed è bello: attorno a loro la poca gente  sbaglia il tempo dell’applauso. Io continuo a pensare a questa storia che se un uomo e una donna si vogliono bene poi si mettono insieme si fanno le coccole e alla fine nasce un bambino, dirmelo così è stata un’indelicatezza, Mauro P.

II

Ma il mattino dopo è diverso, è sabato, il cielo opalescente svapora e si sgrana e si sfascia in sottili bande di azzurro luminoso, l’aria è pungente, il sole intiepidisce e dopo la ritirata strategica la gente trotta adesso sopra lo stesso ponte sul Bacchiglione a terzetti e quartetti e sempre lì si affaccia scivolando con le pance sul parapetti di pietra, come cetacei spiaggiati, ride, scherza e va a fare colazione. La vita continua. Misteriosamente, non c’è più il battellino misterioso. L’acqua del canale è di un verde prezioso. Le poltrone cubiche del wine bar sono adesso occupate da un gruppo di ragazzi sciatti e liceali che hanno fatto sega, con mazzi di cartelle flosce piene di inutili libri tutt’attorno, e le amiche inaugurano i loro mattinieri rendez-vous depositando i cappotti su una sedia vuota e fregandosi le mani screpolate: sotto i portici s’incrociano sguardi da professori, uomini con in mano le figlie, cani ridicolmente infagottati, bocche che blaterano al cellulare, giornali sotto le ascelle e nessuno sta fermo. Le biciclette svolazzano dappertutto come libellule e hanno spesso una ragazza sopra, drappelli di bionde viennesi si muovono rapidi al sole capeggiati da una suora molto euforica, i taxi avanzano a strattoni fra le biciclette, un laureato di fresco conciato come una puttana viene condotto per le vie e sbertucciato dagli amici e guardato con malinconia e desiderio da tutti gli altri occhi. Ci sono due zingari, tromba e fisarmonica, che suonano Underground di Bregovic sotto un portone monumentale, gli abusivi trasbordano coi fagotti in spalla e le occhiate bianchissime e circospette, i fotografi cercano inutilmente di non farsi vedere mentre t’inquadrano con la stessa vergogna di uno che si masturba. In Piazza Dei Signori i tavolini pullulano e formicolano, e stamattina le conversazioni sembrano più che altro animati piani per il futuro, piani di battaglia, la gente si parla arrabbiata, c’è un chiasso fluttuante basso e alto tipo una marea montante, e, non si sa mai perché, vecchi coniugi stranieri siedono ai tavolini dei caffè tutti e due dalla stessa parte, come se volessero dimostrare qualcosa o dare un’immagine esatta della noia coniugale e dell’incomunicabilità coniugale. E altro ancora. Su un basso basamento al centro della piazza c’è un ordinatissimo mercato. I banchi sono pieni di straccetti e maglioni a losanghe. Grigio e viola i colori dominanti. La navata centrale è piena di donne attentissime. Dalle tettoie pendono abitini femminili monoscocca che le donne artigliano e sbirciano da sotto nello stesso modo che piacerebbe a un uomo se l’abito fosse occupato da una donna. In Piazza Dei Signori c’è il banchetto della Lega che metastatizza poco accanto nel banchetto de La Destra. Sul banchetto della Lega ci sono i risaputi slogan della Lega. I ragazzi del banchetto della Lega vestono popolarmente, direi dimessamente, credo per trasmettere un senso profondo di attaccamento alla base e al popolo che lavora e fa cose utili e non chiacchiere. Più in generale hanno le facce di quei miei compagni di classe i cui genitori partecipavano alle riunioni coi professori soltanto per litigare coi professori. I ragazzi del banchetto de La Destra non riescono a togliersi quell’antico vizio di vestirsi come degli ultras e di ondeggiare con le mani sinistramente nelle tasche dei bomber e masticare convulsamente le gomme. Dall’altra parte della piazza c’è il banchetto del Meetup Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. Flaneur a ventiquattro anni già bello che inacidito, cammino avidamente verso di loro aspettandomi qualcosa di fanatico da riferire, ma sono ragazzi gentili e, direi, allegri. Della ragazza che mi porge il loro volantino, anche questo piuttosto sobrio, purtroppo non vi so dire nulla perché portava in faccia la maschera di V per Vendetta. In Piazza Delle Erbe c’è il mercato della frutta: scoscesi banchi di frutta smagriscono sotto le piccole mani di piccoli indiani eleganti dagli abiti color pastello, spalleggiati da mogli in atteggiamento umile e sguardo mansueto avviluppate in abiti spumeggianti e iridescenti. In Piazza Delle Erbe c’è il banchetto del PD, e una televisione locale che fa un’intervista. Il ragazzo dietro al banchetto del PD che fa l’intervista è vestito come quando devi andare alla laurea di un amico e sai che la festa non sarà troppo grossa, ma neanche troppo piccola! Il ragazzo dietro al banchetto del PD veste una giacca di velluto a costine, marroncino, e ha il collo fasciato da una sciarpetta striminzita, azzurrina. Sembra il tipo che seda le risse e finisce per farsi male a una mano. Sopra il brulichio del mercato passa una flottiglia di piccioni e plana e atterra ai miei piedi, frullando schifosamente. Io sto seduto sul ciglio di una fontana. Una ragazza asiatica immortala il tutto con la sua reflex di fascia media e si allontana gioiosa con la sua fotografia di strada che contiene, tra le altre cose poetiche, la mia faccia ammalata e stanca.

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Siamo dei sudici barboni.”

  1. Alessandra scrive:

    Il titolo del tuo post mi ha ricordato un episodio realmente accadutomi.
    Te/ve lo racconto: “sarò breve” (AIUTO).
    Da poco nelle Marche trasferitami da Milano dopo vario peregrinare per l’Italia, mia madre era assai preoccupata della mia probabile (e attualmente sempre più vicina) brutta fine. Un giorno, al telefono, le stavo raccontando di essere passata dalla CARISAP per accedere al mio conto senza pagare commissioni. Lei, di rimando, mi disse: “Dove? Alla Caritas?”.
    Non farà ridere i molti ex piccolo-borghesi che davvero adesso frequentano la Caritas di fermo.
    Oer ora, mamma, non sono tra loro (meno male che ci siete tu e papà… bambocciona che non sono altro, vergogna).
    E sì: i bambini nascono così, ma bisogna volersi molto, molto, molto bene.
    BRAVI, continuate così :-)

  2. BARBARA scrive:

    ahahahahahah….padovani…beccateve questa!
    Bravo Matteo!
    Ciao ragazzi, a presto! .-)

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