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L’ultima a rimboccarmi le coperte.

Porto Sant’Elpidio (FM) – S’era intasato lo scarico del bagno e il pavimento era allagato, l’acqua tracimava e cadeva in fitte cascatelle sui due gradini che dal bagno scendevano in soggiorno. Mio padre e mia madre, riparando con la punta delle scarpe in minacciate isole d’asciutto, arginavano la piena arrotolando stracci, un empio martirologio decollava dalle labbra di mio padre, mia madre rideva così forte da doversi appoggiare alla credenza, che traballava con tutto il suo contenuto, mia madre era paonazza, io mi alzavo tardi dal letto per non aver avuto sonno, tutti e due si bagnavano le scarpe. Mio fratello era ancora a scuola. I miei riposi erano scalzati dai sogni, vaticinavo sulla giornata, sapevo che poche ore dopo quella notte sarebbe cominciata la mia carriera da astronauta, avevo sempre il batticuore. Ad una certa ora della notte, due allegorie contrapposte, allegoricamente vestite, si avvicinavano al mio letto con passi silenziosi e vegliavano sopra il su e giù ignaro del mio torace avvolto nelle lenzuola, tutte e due sedute come all’ospedale. Quelle attenzioni mi lusingavano, e io non sapevo scegliere fra le due balie, che amavo entrambe, e vezzeggiavo equanimemente. A dire il vero, non riuscivo mai a capire chi fosse l’ultima a rimboccarmi le coperte. Nel mattino la casa era piena di luce, ed ero di nuovo solo, nella stanza. Non potevo stare fermo. Scendevo le scale come le salivo, a passi da tre, sfiorando nell’ultimo atto della corsa l’asse da stiro dietro il quale mia nonna ripassava alla perfezione le immacolate camicie, fra getti di vapore alti sopra la chioma grigia, mia nonna profumata di messa e di domenica. Aveva doti di acrobata, sapeva per esempio con destrezza reggermi la fronte e il bacile nel quale vomitavo. Subito dopo essere sceso, salvavo l’alluminio siderale dei fornelli da un’eruttazione di latte, sollevavo con i denti reticenti di una forchetta il velo di panna dal pentolino ancora scosso dalla fiamma e lo ponevo fra me e la luce di una finestra, alto come un apostrofo, per esaminarne la trasparenza, e me ne andavo deluso. Io risalivo le scale come le scendevo, a passi da tre, e già nel primo mattino un amico di giochi occupava la mia camera con l’aria di uno che aspetta dal dottore, seduto sul letto con le mani giunte fra le cosce, la chioma troppo folta, e quando apparivo sulla soglia gli scattava sulla faccia un’allegria che non mi convinceva, automatica, e non capivo mai da dove entrasse in casa mia. Voleva giocare, ma ero duro con lui, e tutte le mattine lo cacciavo. Se ne andava dicendo che avrebbe di certo provveduto. Poi le finestre del secondo piano si spalancavano per le pulizie, e io mi avventavo sulla ringhiera del balcone per gridare ai vicini che li odiavo, scuotevo la ringhiera come un rematore, urlando follemente – sietedellemerde! – certo, le case dei vicini erano immuni a queste provocazioni, frequenti come piccoli raffreddori, ma io vedevo le sclere, bianche e atterrite, affollarsi rigogliosamente a tutti i varchi delle persiane – li avevo spaventati! – accenni di cuoio capelluto affacciarsi dall’orlo ondeggiante delle tende, dall’orizzonte di una catasta di legna da ardere. Era in effetti grazie a questo che la notte scendeva improvvisa alle tre del pomeriggio, e le vie si riempivano di luce tenebrosa e finalmente nevicava. Nelle stanze da letto si spaginavano i letti, il vento faceva girandolare i quadri, gli armadi sputavano i maglioni. Arrotolavo più volte il vecchio disco del telefono per informare Elisa di questa nevicata, ma ne era al corrente, aveva una liaison con una particolare finestra che riusciva ad imprimere le sue amate gote contro il brullo paesaggio stagionale, vedeva tutto, Elisa, nella doppia esposizione delle sue gote pesca e di quella terra beige, e così ne approfittavo per ripeterle quel mio vecchio desiderio di un giardino, io che avevo familiarità solo con i cortili, perché ora nel mio cortile di mattoni la neve non attecchiva, escluse le nere fioriere, e invece il suo giardino verde era tutto avvolto da una retina di gracile neve salata, che immolava alla bellezza la sua breve vita di farfalla. Elisa sospirava un che vuoi farci, bisogna accontentarsi – Sisi, dicevo io, con la saggezza, e gettavo di nervoso in aria la cornetta, vincolata dalla sua elica, per poi buttarmi dal balcone, con mia madre che mi brandiva contro le sudice setole di una scopa, per spaccarmela in testa, naturalmente, e auspicava fosse l’ultimo volo dal balcone – ragazzo incontentabile – ma io finivo a cavalcioni sulle spalle di mio nonno, corpo duro, sguardo mite, e cavalcavo il nonno così a lungo, e con gioia tale – il nonno era instancabile, non era sellato né ferrato – che dai commossi lucori delle chiome dei pioppi cominciava a nevicare, il vento nella via sembrava scaldato da una stufa, sugli orti si stendevano fosche coltri di morbidi pappi, era primavera. Qui, mio zio stava sempre sotto un fico, fisso come una pietra, screpolato al sole, abitato da uccelli. Lucia, che cadeva dalle amache, sosteneva che fosse necessario esplorare la soffitta. Con un gancio tiravamo allora giù la scala, che salivamo molleggiando, ma infilata piano piano la testa nel buco quadrato, la soffitta era fredda come una grotta e Lucia convinta che uomini in tuta coi sacchetti per il pranzo fossero passati dagli abbaini e consumassero i loro panini sui tetti dove ancora sventolava qualche sbrindellato bandierone dell’ultimo mondiale. Solitario e coraggioso, come un soccorritore, trascinavo giù lo scatolone con l’abete artificiale appena provavo il desiderio del Natale, e le sei del mattino stabilito diventavano a mio comando livide e brumose, sonnacchiose e riluttanti, ogni oggetto della casa odorava di termosifone, i mobili rilasciavano il calore come il mare di notte, io scoperchiavo il pianoforte per specchiarmi nella vernice nera, svegliavo mio fratello solleticandogli le ciglia. Erano tempi così: nei miei scioperi di figlio, contro mio padre agitavo il pugno per dirgli “ti farò vedere!”, facevo firmare a mia madre contratti matrimoniali, la riempivo di tesori. Quando infine sognavo, due mani protese di bambina mi volevano mostrare, schiudendone l’alveolo, una piccola crisalide di luce: si rigirava negli umidi e rossi palmi di lei, come soffrendo, febbricitante. Ma nelle piccole tregue dell’agonia, riusciva a versare, a faticose stille, luminose lacrime di intelligenza. Allora, diceva la bambina, le vedi? Le vedi?

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

 

One Response to “L’ultima a rimboccarmi le coperte.”

  1. cristina lombardo scrive:

    che meraviglia matteo,sei riuscito a descrivere una vita in poche righe!
    vi seguo, vi leggo, vi guardo
    un abbraccio ai quattro evangelisti

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