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Un’onesta bugia.

Bologna – Parma – Oggi, durante il viaggio, guardavo: la nebbia che ieri sera si era distesa incivilmente sulla città, nonché introdotta venefica  nei portici, distesa felinamente nei giardini, stretta in aloni attorno ai lampioni, la nebbia che aveva diffuso dappertutto un allegro bagliore di caramella, che aveva decurtato il centrocampo a due squadre amatoriali dalle divise simili a pigiami, che faceva per forza sembrare ogni passeggiatore un tipo inquieto e insofferente, e faceva assumere a tutto e tutti i connotati di un’imprevista apparizione, appena, ma non sempre, segnalata da un suono acuto o diabolico, tipo il tacco di rincorsa della bambina biondo cenere che, nell’attimo in cui svoltavo l’angolo, ha preso a correre con la cartella sulle spalle e i fluttuanti frangenti del cappottino grigio vellutato, dileguata senza un volto, né una voce, ad eccezione del tacco, di cui immaginavo la scarpa, nera e lucida, proprio nella nebbia, che faceva apparire tutto quanto avvolto in una acquosità da parto, guardavo la stessa nebbia retrocessa in orizzonti ampi e lontani, per una tregua crudele, sopra campi colmi di colore, malgrado la luce prostrata, il ricco marrone e il verde dorato e neonatale, e la dentellatura che inconsapevolmente cinque uccelli aggiungevano al collo di un lampione, la gente che entrava e usciva prosaicamente dai caffè e dagli alimentari, con quell’atteggiamento così esplicitamente feriale da farti venir voglia di urlare e fuggire in un posto che non esiste, il traffico stretto fra i frangivento rondinati sulla tangenziale di Bologna, gli orecchiuti palazzoni, le torbide scritte sui muri e la sporcizia, l’ansia di sbagliare uscita, le piante di caco sovraccariche, come  madri africane, la faccia pulita di una chiesetta di campagna, la barbetta schifosa di una vegetazione il cui colore non suggerisce o comunica  altro che un resa totale a tre prossimi mesi di tristezze, un sole alle tre del pomeriggio inaccettabilmente basso, la luce del sole filtrata da futili straccetti di cirri e sgranate scie d’aeroplano che riesce ad essere misteriosamente più intensa dentro all’autogrill, il piazzale pieno di militari devoti al loro tabagismo malinconico, il bancone e il caffè e la cassiera dagli enormi occhi glaciali che sembrano mangiarle la faccia.

E pensavo: succede così; si arriva in un posto con l’occhio dell’instant traveller, e, ammettendo di non essere benedetti da qualche raro stato di grazia, si nota quanto di più assordante il posto tende a comunicare; grida arruffate ed esibizionismi che, amplificati in tutti i modi che sappiamo, la televisione e le chiacchiere da barbiere, finiscono per depositarsi, come una conoscenza semiastratta, persino in chi nel posto non c’è mai stato, nemmeno da instant traveller. Sono i cliché, gli stereotipi, la cui coniazione non è mai attribuibile, legata all’intelligenza di qualche atavica entità collettiva, ma per i quali tutti ostentano una immediata ripugnanza, per i cliché, pur utilizzandoli in continuazione, dato che, in qualche modo, sono veramente veri. Sono saldi e pratici, con una buona percentuale di esattezza, utili ad una fatica conversazione. Ma non sono abbastanza. E a modo suo, scrivere, non  è che fare uno slalom  fra gli stereotipi, truccare adeguatamente i cliché. Scrivere, difatti, è una onesta bugia: a sua volta un cliché, e un brutto ossimoro,  ma, brutto a dirsi, una verità. E dato che, purché si sia disposti ad ammetterlo, la nostra vita ci sembrerà davvero vissuta nella misura in cui può essere riportata quasi istantaneamente alla narrazione –  la nostra vita, è un altro dei suoi paradossi, ci appare tanto più viva quanto più è bugiarda - e si che abbiamo questa continua presunzione di ricapitolare, e ogni speranza rivolta al futuro non è che la speranza che il futuro possegga le qualità in grado di evocare ricchi ricordi in un futuro ancora più futuro,  sicché ogni futuro finisce per contenere un’infinità di futuri, ma il passato resta uno solo  – ed è per questo che, da quando ce lo possiamo permettere, non la smettiamo di sottoporre ogni momento ad una scansione fotografica, in modo tale  da rassicurarci e rendere tutto immediatamente raccontabile, sfuggendo così alla noia e agli elementi della vita fatalmente non drammatici – allora uno si trasferisce nel posto, per superare le larghe maglie del cliché, e infilarsi nelle crune d’ago delle sfumature. Non perché si amino i dettagli, ma perché a una buona storia servono i dettagli. Si vive a lungo lì. Ci si stanca: si scopre che se c’è una cosa uguale in ogni posto, è il dettaglio. Ci si annoia. La ricapitolazione, così come la vorremmo, è impossibile. Si è  delusi e si riparte. La stessa storia si compie in un altro posto. E in un altro ancora. Poi ci si ammala e si scrive un libro di memorie. Finito il libro, con un sospiro famelico, si scopre di aver scritto solo di  nebbia, di portici, di giardini, di lampioni, del suono del tacco di una scarpa, del grano giovane in un campo, delle chiese di campagna, del traffico sulla tangenziale, dei frangivento, degli occhi di una barista. Di quanto tutto questo sia stato importante per noi. Di aver scritto un libro composto solo di cliché. Altra delusione, uno si dice: “avrei potuto scriverlo anche il primo giorno”. Ma non è così.  Qualcosa, infatti, ha tramutato quei cliché in pezzi unici, che nessuno avrebbe il coraggio di definire cliché,  qualcosa intiepidito dalla delusione e insaporito dalla tenerezza. La chiamano memoria, ma forse è anche questo un cliché. Ne siamo delusi, è stato tutto uno spreco di forze, e forse anche questa delusione è una bugia. E sullo scrittoio ruzzola senza sosta la moneta dove il nascere e il morire rivelano a lampi i loro profili intransigenti.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Un’onesta bugia.”

  1. Cinzia scrive:

    Complimenti Matteo è sbalorditivo come scrivi, come riesci a cogliere la semplicità del quotidiano e a trasmetterla, parte integrante della vita di chiunque.

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