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Spazza via la vecchia.

Trieste – Verso le stravaganze siamo ben disposti, ma questa è un’esagerazione. Siamo in automobile, alti sul mare di Trieste, fumante, gravido di petroliere, glassato dalla bora che soffia. Questo significa gente a passeggio sugli orli delle strade, strette in abbracci solipsistici, e capelli arruffati come i prati, come gli alberi e come le nuvole; nel porto, alberi maestri dondolanti, tipo metronomi. La nostra guida ci ragguaglia: “Nel finesettimana hanno dirottato qui tre crociere dirette a Venezia. Per la nebbia”. Pessimi risultati. “ Passeggeri ed Equipaggi nelle strade. Saccheggio totale. Totale. Una disfatta. Ripartiti satolli” Infatti non si trova più una brioche per fare colazione. I baristi hanno l’aria abbattuta, comunicano con cenni sconsolati, aspettandosi comprensione. Colta alla sprovvista dall’inattesa penuria alimentare, da due giorni la gente entra nelle case degli altri. “Fregano la roba nelle dispense”. Si vede infatti un sacco di gente uscire dai portoni stringendo fra le braccia malfermi minareti di scatole di biscotti, crostate, carne in scatola eccetera, e correre furtivamente a casa, sgusciando nel vento e insinuandosi negli androni, lanciando occhiate avide e cattive. Si vede tanta gente cadere senza motivo, come sgambettata. Dimenticavamo la bora, forte e tesa, granitica come un mediano, abilissima nei tackle scivolati. La città vibra tutta come per un terremoto: i pali, le siepi, che sembrano scosse dall’interno. Avvinti da quanto mostra il losco brulichio dei marciapiedi, la botta grossa e sorda, come uno schiocco di ventosa, ci coglie alla sprovvista, facendoci sobbalzare: è una vecchia, incipriata e clownesca, con un cappellino e una sporta floscia infilata fino al gomito: si è spiaccicata sul parabrezza, dopo aver preso il volo dalle strisce pedonali,  con tutti gli arti celestialmente, trionfalmente divaricati. Sorride contro il parabrezza, con gli occhi euforici, iniettati di adrenalina. “Scusate” – mormora la guida, un po’ seccata – “Queste qua se ne approfittano” – “Una botta di vita” – soggiunge – “sono disposte a tutto”,  e spazza via la vecchia col tergicristalli, facendola rotolare da un lato, di groppone: con un ansioso scatto retrovisore degli occhi, la vediamo rimbalzare e  rimpicciolire  nel traffico, che la evita senza problemi, con dimestichezza. Io e Giovanni ci guardiamo per un po’: mi aggrappo al maniglione. La guida stringe gli occhi nella chiara luce del giorno, pigia sul pedale. Vicino a Piazza Unità, tre uomini in tuta, montati nei cesti in cima alle gru, tentano di blandire un altissimo albero di natale ancora spoglio, ostile come un elefante inferocito, persuadendolo all’addobbo. “Tutti gli anni così” – sbuffa la guida, guardando in alto. In via Carducci, trafficatissima, molte persone con in mano valigette, o impegnate in determinanti conversazioni, spalancano le finestre, salutano le mogli e si gettano dai piani più alti degli edifici, ma invece di cadere, giunti ad un certo punto – mentre noi facciamo smorfie di dolore – subiscono stupefacenti spinte a mezz’aria, involandosi in varie direzioni. Non osiamo chiedere. La guida sorride sorniona: “Affari. Ecco come si diventa miliardari! Risparmiano su tutto, anche sul biglietto dell’autobus. Ma bisogna saperlo fare! Gestire le correnti. E’ pericoloso. E qualcuno di quelli, stasera, avrà almeno un raffreddore”. Gente che vola ovunque, anche suo malgrado. Una signora ha fatto un hula hop al contrario attorno a un palo della luce, e adesso è disperatamente aggrappata alla lampada come a una roccia scivolosa nel torrente in piena, con le gambe tirate in alto come dai fili di un burattinaio. Un uomo calvo col grembiule è corso nel suo negozio di mangimi a prendere una scopa, e, artigliato per la maglia da una fila indiana di figli robusti che si inoltra sino al retrobottega, gliela tende, stiracchiandosi inutilmente. E’ di buon cuore, e gli viene da piangere. La donna grida. Si è formato un bizzarro capannello, tutti ancorati in qualche modo, si fanno commenti angosciati, con la mano libera davanti alle labbra; le macchine, tutte ballonzolanti sugli ammortizzatori, rallentano, i bambini incollati ai finestrini, con le mani a tendina sulla fronte. E anche noi. “Morbosi!” – sibila la guida, non a noi. Ci ritraiamo colpevolmente. Però poi basta, perchè lasciamo la città e saliamo sugli altipiani attorno, spazzati tutti dalla bora, fra il verde afflitto di querce affrante, fin verso il confine sloveno e oltre, per visitare una splendida colonia di famosi cavalli locali, che, benché profetizzati da una continuità di candidi recinti, ormai supplenti dei guard rail, sembrano disertare i pascoli. Siamo, anche se frastornati, ormai avvezzi alla sorpresa, ma anche qui le nostre previsioni non bastano ad evitarci lo spavento: una polputa cacca di cavallo precipita a grappoli sul tettuccio, inattesa, e da un’imprecisata altitudine, con il boato ovattato della cacca. La guida ha il sorriso compiaciuto del magnate che mostra i suoi tesori intanto che ci osserva assistere a bocca aperta al volo di venti cavalli bianchi davanti a un tramonto gelido, a gole aperte di paura, con un sole enorme e rosso, e un cielo di bianchetto. Venti pegaso nel vento. Sarà stato abbastanza? Più tardi scendiamo in città su un vecchio tram che scivola dalle alture sin verso il centro. E’ un tram scampanellante, con i sedili di legno lucido e il motore che fa il rumore di un aereo ad elica impegnato in una picchiata, e il sedile per gli invalidi di guerra, ed è occupato da gente silenziosa con il sole nelle pupille. Alla terza o quarta fermata salgono due quarantenni, molto materne: caricano dieci lunghi borsoni neri da refurtiva, con grande pazienza, e l’autista le aspetta. Una volta dentro, con il tram che svirgola riprendendo la marcia, le due donne aprono uno ad uno tutti i borsoni: ne fuoriescono una moltitudine di bambinetti incappucciati, che, appena liberati, si animano con la lenta vitalità delle tartarughine che hanno da poco dischiuso l’uovo. “Maestre d’asilo” – spiega la guida – “Usano i bambini come zavorra. E chiudendoli lì evitano che volino via. Due piccioni con una fava. Usanza consolidata”. Ma siamo di nuovo fra alti palazzi: due fidanzatini, dopo aver vorticato come una raganella attorno a un palo stradale, perfettamente tesi e orizzontali, gli occhi sorridenti, tentano di raggiungersi con un bacio. Tentano. Tentano. “I nostri sentimenti sono messi a dura prova, come vedete. E’ per questo che sappiamo essere fedeli. Viviamo in una galleria del vento, signori” – dice la guida. Come darle torto? E’ stata una giornata veramente bizzarra. Piena di vento.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Spazza via la vecchia.”

  1. Alessandra scrive:

    Il vento si sente in ogni parola. Grazie!

  2. Silvia scrive:

    sei uno dei più bei sorrisi che ho; ed il saluto.

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