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Il sole non scottava mai.

Pompei (NA) – Eccovi Pompei, che a causa di forza maggiore doveva presentarsi attraverso una limitazione. Steso per la febbre ne facevo la conoscenza attraverso i brandelli, gli spigoli e i frammenti che misericordiosamente transitavano, oscuri suggerimenti, nel rettangolo notturno dell’oblò sopra di me ( di per sé, avaro di stelle ). Così, poco per volta, angoli di balconate sbeccate apparivano per sparire in un attimo, e piatti tetti meridionali, e intonaci screpolati, sfatti e scoloriti, con i resti induriti di antichi strati di manifesti pubblicitari ridotti a una colata semicalcarea. Il resto lo integravo con l’udito, e l’immaginazione si precisava grazie al frettoloso accumulo di suoni che provenivano da una impaziente, prototipica zuffa automobilistica, il clacson appuntito dei motorini a pedali, quel rumore arrogante e baro che immaginavo strisciare con incoscienza nei sottili cunicoli del traffico che non potevo vedere. Poi le scintille di un falò che affioravano brevi e tremolanti nell’area del rettangolo ( mi immaginavo lo stesso falò, con mani e graticole pazzamente gettati sul fuoco ), scintille che facevano capolino accompagnate da grida e canti. Un odore pungente e ingrato che non sapevo definire e che ho pensato subito, malignamente, fosse monnezza. La notte nell’area camper concepita come un fortino erboso nello sconclusionato stridore d’asfalto e malfermi parapetti e stendi panni improvvisati e  panni stesi della prima periferia avrebbe dovuto passare in pace: ma due cani hanno latrato, nel cuore della notte improvvisamente vigile, un latrato sconveniente e fermamente ribadito a cui ha fatto seguito, naturalmente, una sinfonia di latrati emulativi. Sono i cani di Pompei, randagi ingobbiti e dagli sguardi spenti che vagano anedonici per la città, indisturbati, e soprattutto nella città archeologica, spettrali custodi che, quasi addossandosi un lutto che è stato impossibile a suo tempo, riscattano e accudiscono la tristezza di un luogo colto impreparato da una morte ingiudiziosa come solo la morte. Pompei, di fatto, gira attorno a un vuoto, ma non si può dire sia organizzata, attorno a questo vuoto. E’ piuttosto la cauterizzazione del vuoto, ma anche questo suona impreciso. Se gli orli di questo vuoto si mostrano lindi e rifiniti, e all’interno dell’enorme città archeologica ( una vera meraviglia ) riescono a penetrare soltanto i rumori tellurici ormai attutiti degli pneumatici che rotolano saltellando sull’ammattonato elegante ma scomodo che circuisce gli scavi, basta allontanarsi appena per ritrovarsi in quel magma sregolato o, perlomeno, governato da leggi imponderabili e semitribali che nelle strade sbucciate e scapestrate, rattoppate e scorticate ci si vuole affrettare a conoscere perché possa scaturire, almeno intellettualmente, un orientamento completamente inedito: serpeggia ad ogni angolo un sinistro disagio che, più che dal pregiudizio, sembra alimentato da un senso di “abbandono” che non è propriamente incuria, ma l’abbandono a una coscienza allentata, semicosciente, e, molto spesso, come si sa, del tutto incosciente. Mettono soggezione certi occhi e bocche e sopracciglia affondati in lineamenti esasperati e contratti, sebosi e smottanti, che finiscono per comunicare in forma, per così dire, vegetale, minerale, la storia di un volto e di una terra. Motorini a pedali. Ferrivecchi su api steroidee. Dappertutto il tessuto di una vita che si intrattiene con forme antiche di vissuto, ma ne subisce inerme la modernità (  la diffusione ineguagliabile di tamarri ), e, costante, il grande vuoto, il baratro, attorno al quale la città germoglia e prolifica con scriteriata sovrabbondanza, costantemente minacciata dalla gravità di un Vesuvio sornionamente minaccioso e sulla cui bocca aleggia ogni tanto una sarcastica nuvoletta. E ciò potrebbe voler dire che nessuna terra più di questa può arrivare a sentire il ridicolo, il comico, l’ineludibile dipartita la cui luce, rivolta indietro, riesce a modificare e distorcere, a rivelare lo scostumato costume da sceneggiata di cui si veste il mondo, dato che un nume concreto, visibile, stentoreo e inamovibile, non fa che ricordare che tutto può finire senza preavviso, senza che un senso compiuto possa arrivare a giustificare sperimentalmente, come tacitamente, meschinamente gli uomini continuano a pretendere, parole come fede, speranza, carità. D’altra parte, il solo punto davanti al quale i silenziosi, lentigginosi e malvestiti turisti anglosassoni si assiepano con più entusiasmo nella città archeologica, è quello che mostra, perfettamente conservati, i calchi in gesso degli antichi e dissoluti pompeiani asfissiati dai gas e pietrificati dai lapilli: calchi che trasmettono un turbamento diverso da quello che può trasmettere  il rantolo silenziosamente conservato da una qualunque maschera funebre, che turbano perché sono la rappresentazione più concreta e tattile al mondo non già della morte, ma della sua sorpresa, del suo contropiede, di un particolare tipo di morte, la morte fulminea, cosa che molti di noi si augurano, ma alla quale molti altri evitano di pensare perché trovano insopportabile scoprirsi del tutto impreparati di fronte all’unico passo certo che la vita impone ( “È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi, prima di morire” ), allo stesso modo in cui questa città, la cui dissolutezza un giorno forse potrà essere osservata con archeologica oggettività, dominata panoramicamente dal peso di un promemoria geologico, avanza a passi selvatici, bendatissimi passi, verso il traguardo che tocca alle piazze e ai filosofi, ai camorristi e ai registi, ai sudditi e ai re. Vi ricordate come finiva, qual’era l’ultimo atto di ogni nostro girotondo? Vi ricordate com’eravamo allegri, e com’era fresca l’erba, e come feriva appena il piccolo e inconsapevole palmo della mano che il sole non scottava mai?

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

One Response to “Il sole non scottava mai.”

  1. Gabriella Carnevali scrive:

    Che sia perchè”c’è un nume concreto,visibile,stentoreo e inamovibile”che la lasciano cadere a pezzi?

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