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Mostre 2009

Sergej Maksimishin

L’ULTIMO IMPERO: LA RUSSIA AL TEMPO DI PUTIN
Fotografie di Sergej Maksimishin
A cura di Massimo Maurizio
Galleria FIAF 6 – 27 novembre 2009

La fotografia di Maksimišin è innanzitutto un racconto, un racconto che parla della Russia, delle sue distese e delle milioni di vite che vi scorrono, dei mille stili di vita che vi si incontrano. La fotografia di Maksimišin è testimonianza, ma non dell’inumano, del terribile, com’è caratteristico per l’arte e la letteratura russe da almeno tre quarti di secolo a questa parte, ma testimonianza della vita, ovunque essa si manifesti, indipendentemente dalle forme con cui essa ci parla di se stessa. L’occhio di Maksimišin rileva nelle vie gelate di una sonnacchiosa Pietroburgo invernale (“la prospettiva Nevskij”) e nelle trincee in Cecenia (la fotografia senza titolo di un gattino a Groznyj) un messaggio tutto sommato molto simile: la ricerca di qualcosa che definisca il vivere in quanto tale. L’obiettivo, tanto fotografico quanto artistico, di Maksimišin si concentra sulle persone ed è interessante che proprio le persone, con le loro suppellettili o abitudini, parlino di un paese nel suo complesso più di quanto siano in grado di farlo paesaggi e monumenti. Nei lavori di Maksimišin l’uomo è quasi sempre presente, e anche laddove parrebbe non esserci si nota la sua presenza, resa discreta dall’abilità e dall’occhio poetico del fotografo. La Russia, con i suoi quasi 10000 chilometri e i suoi problemi, immensamente superiori, diventa protagonista assoluta di queste fotografie, che sono sguardi, spesso ironici e smaliziati, negli occhi di coloro che per la Russia si muovono, dalle due capitali alla Tyva, dalla Siberia alla Kamčatka, senza dimenticare le ex province sovietiche. Ma accanto a tutti i problemi, alla povertà o al contrario alla ricchezza plateale e volgare (l’uomo d’affari russo sul suo yatch circondato da modelle russe) Maksimišin coglie sprazzi di vita, una normalità che tale forse non è per chi osserva. Ma il fotografo parla di chi la vive e con chi la vive, quella normalità, tutti i giorni, in maniera rassegnata o inconscia, con fervore o rassegnazione. E i grandi protagonisti di questi scatti non sono nemmeno più le persone, ma i loro sentimenti, l’odore del loro vissuto, che traspare dai colori e dalle atmosfere di queste fotografie.
In un’intervista al sito photographer.ru Maksimišin sottolinea, a proposito dei lavori dei fotogiornalisti russi, l’eccesso di letteratura e la mancanza di musica. Forse proprio l’armonia dei suoi lavori, il filo sottile che sottostà ai suoi cicli e ai suoi progetti in toto è ciò che gli ha permesso di diventare una delle figure di spicco, e non solo nel proprio paese. Maksimišin ferma l’attimo di ciò che egli vede, inserendo nelle proprie fotografie la “raffinata trascuratezza” che regala quella sensazione dell’“irripetibilità del momento” di cui parla gli stesso.

Sergej Maksimišin nasce nel 1964 a Kerč’, in Crimea, da dove si sposta a Leningrado nel 1982. Qui si iscrive alla facoltà di fisica nucleare, ma presto abbandona l’università e viene chiamato al servizio militare, che lo manda, tra il 1985 e il 1987, a Cuba. Nel 1991 termina il politecnico di Leningrado, laureandosi in fisica e dall’anno successivo lavora come tecnico di laboratorio all’Ermitaž. Nel 1998 si laurea alla facoltà di fotogiornalismo dell’Università Statale di San Pietroburgo e l’anno successivo viene assunto dal quotidiano Izvestija. Nel 2000 fu mandato come reporter in Cecenia.
Nel 2003 si lascia le Izvestija e ad oggi lavora come fotografo freelance, unendo a quest’occupazione l’insegnamento alla facoltà di fotogiornalismo che egli stesso ha concluso.
Ha collaborato e collabora con riviste come The Times, Time, Newsweek, Parool, Liberation, Washington Post, The Wall Street Journal, Stern, Business Week, Focus, Der Profile, Corriere della Sera, Izvestija, Ogonёk, Itogi, GEO e altre.

CITAZIONI:

Da una lezione alla facoltà di fotogiornalismo dell’Università Statale di San Pietroburgo:
“Scattando per un [ipotetico] libro su Mosca dovete avere una cinquantina di buoni scatti, di cui tre o quattro da mettere in copertina […] Sulla prima di copertina dovete sistemare una fotografia che dica di che cosa si tratta senza bisogno di leggere il titolo del libro. Per esempio, qual è il simbolo di Mosca? La piazza Rossa, come la Tour Eiffel è quello di Parigi. Per quanto possa sembrare banale è così. E voi dovete fotografare queste cose, ma come nessuno prima di voi le ha fotografate”

Da un’intervista al settimanale Afiša:
“Un fotografo è valido nella misura in cui sono validi gli scopi che si pone”

Da un’intervista al settimanale Afiša:
“Nella fotografia ci sono luce e colore. Sono un estremista e non capisco affatto le foto in posa. Non c’è Dio. Ogni scatto è un biglietto della lotteria: non sai mai che cosa ti manderà Dio. A volte mi chiedono: “Come ci sei riuscito?” Una buona fotografia per il 90% è questione di pazienza”.

Da un’intervista al quotidiano Peterburgskie vedomosti:
“Ogni forma d’arte si sforza di assomigliare alla musica, perché la musica è l’unica tra le arti che si rivolge non alla testa, ma ai sensi. E una fotografia è migliore, se in essa c’è meno letteratura e più musica possibile. Oggi la fotografia sta aspettando il proprio Quadrato nero, che al tempo di Malevič mise fine all’arte di soggetto”

Da un’intervista al settimanale Afiša:
“Il fotografo di un’agenzia stampa russa scatta la foto “Vanja cavalcava il suo cavallo”, il fotografo di un’agenzia stampa occidentale scatta la foto “portava il cagnolino legato con una cinghia”, mentre il buon fotografo scatta “A intanto una vecchietta bagnava il suo cactus sul davanzale”.

Da un’intervista al sito photographer.ru:
“Domanda: che cosa cerca di mostrare in un reportage? L’evento, la reazione di coloro che vi partecipano, la sua reazione, un sentimento?
Risposta: Se mi riesce di presentare adeguatamente tutte e quattro queste cose, la fotografia è riuscita”.

Da un’intervista pubblicata sul sito rutube.ru:
“Domanda: qual è la differenza tra arte e fotografia?
Risposta: Ci occupiamo della stessa cosa: raccontare alla gente ciò che li circonda, soltanto che i metodi sono diversi […] L’artista sintetizza le proprie sensazione della realtà, prende tanta creta e con quella creta crea qualcosa; questo è la somma di tante impressioni, che crea una qualche sostanza, mentre la fotografia è differenziazione. Noi affettiamo il salame della realtà e il nostro intento è di tirare fuori la fetta che sa più di salame di tutto il salame”

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