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Mostre

[MOSTRE] – Verbum Imago Factum Est – “Il pensiero immaginato” di Luciano Giuliodori e parole di Vittorio Graziosi

Luciano Giuliodori ha il piacere di invitare tutti alla sua mostra dal titolo Verbum Imago Factum Est – “Il pensiero immaginato”.

La mostra verrà inaugurata domenica 2 giugno 2024 alle ore 18 presso l’Oratorio di San Rocco a Torre di Palme.
La mostra sarà visitabile fino a sabato 8 giugno 2024 secondo i seguenti orari: tutti i giorni dalle 10.30 alle 19.

Non mancate

Presentazione da parte degli autori

Il paesaggio fra immagine fotografica e scrittura. Luciano Giuliodori e Vittorio Graziosi

La fotografia paesaggistica come genere si presta a alcune schematiche considerazioni.
Se escludiamo Ansel Adams, Franco Fontana, Mario Giacomelli, Salgado, il tedesco Peter Keetmann (1916-2005) con i suoi alberi in negativo, Edward Weston e il figlio Brett, possiamo dire che nella fotografia del Novecento il paesaggio assoluto è piuttosto marginale. Il Novecento ci offre nudi, ritratti, moda (per Vougue o Harper’s Bazaar), fotogiornalismo, scene nello spirito della fotografia umanistica, della Street photography o della Staged photography, ma ben poco del paesaggio naturale, fatto salvo il naturalismo pittorialista, quello di un Gustav Le Gray (1820-1884), ove il paesaggio è soggetto preferito perché consente di ricreare il momento dell’io di fronte all’infinito, quasi nella crociana unità di intuizione e espressione.  
Per inciso, tale marginalità potrebbe avere una sua spiegazione culturale. Se la fotografia è parte integrante della modernità, essa non può più attingere a quello che E. Auerbach definisce il figurale proprio della concezione medievale. Se, come in Dante, realtà terrena e realtà celeste formano un unicum, la fotografia, orfana ormai di ogni unità, non può più nemmeno intendere il paesaggio come lontano retaggio di una visione capace di conferire all’esperienza un valore eterno. Lo stesso Viaggio in Italia (1984) opera spartiacque di Barbieri, Basilico, Battistella, Chiaramonte, Cresci, Ghirri, Guidi, White e altri, per uno sguardo radicalmente nuovo del paesaggio, è comunque privo di ogni unitarietà figurale.

Il rapporto tra immagine e testo in Luciano Giuliodori e Vittorio Graziosi

Intanto, tale rapporto non è nuovo. Pensiamo al Lied, a Debussy e Fauré di Nell, op. 18. Più a ritroso, la poesia era accompagnata dalla musica, tanto che i poeti erano chiamati aedi, rapsodi, citaredi, termini che in greco hanno in sé sempre la radice aiodòs, cioè canto.
Detto ciò, cosa accomuna in questa mostra le fotografie alle note scritte che le accompagnano? La forma dell’idillio. Non il ‘vagheggiamento della bellezza in una quiete serena dell’anima’, né l’idillio come eidyllion cioè piccolo quadro, bozzetto, bensì, nell’accezione leopardiana, il componimento dell’io nella sua rappresentazione dell’universo naturale (Francesco de Sanctis), scaturito dall’impressione immediata frutto di un originario legame, nella forma del colloquio dell’anima con se stessa. Le fotografie di Giuliodori, come il commento ‘poetico’ di Graziosi, accadono nell’io come luogo originario della rappresentazione stessa. Nella forma dell’idillio troviamo la capacità dell’occhio fotografico di profondarsi nei ritmi stagionali del nascere e sfiorire, del freddo del caldo, della luce e dell’ombra: nella fotografia l’autore imita se stesso non la natura (imitatio naturae).
Ancora leopardiani sono due caratteri in Giuliodori: la semplicità non artefatta e la mirabile verità, cioè la capacità di dare testimonianza della condizione umana senza ricorrere ad artefatti tecnici e narrativi.
Non so se in Giuliodori potrebbe essere accostato ancora al poetica crociana del puro e alto (high-key) di un Giuseppe Cavalli. Giuliodori, peraltro medico come altri membri del gruppo Misa, va comunque preso in seria considerazione. Lo dimostra soprattutto il riverbero, la risonanza sull’idilliaco dello scrittore, Vittorio Graziosi.

Scrivere sulle fotografie

La fotografia d’arte è tale nel senso di un venirci incontro, verso chi guarda (Heidegger), verso il poeta che commenta l’immagine. Questo venirci incontro non è mai una totale ‘fusione di orizzonti’, ma accrescimento, espansione di idee e sentimenti (per Gregorio Magno Scrittura cum legentibus crescit); così, nella prima didascalia, una trafila infinita di aquiloni, che sembra buchino il cielo, o da esso discenda, allo scrittore risuona come l’occhio onnisciente di Dio -o, aggiungo, la scala di Giacobbe, nell’esterno dell’abbazia di Bath in Inghilterra. 
Altrettanto è quello che Giuliodori suggerisce mentre fotografa un lago. Ricordiamo qui l’immagine antica di un lago dantesco o quello di The Mermidaid del cineasta russo Svyatoslav Pogdaievskiy, dalle cui acque affiorano presenze oscure. Come in Brett Weston o in Ansel Adams, anche qui affiorano secchi rami, simili a secchi pensieri che abbiamo già vissuto -visto che siamo ogni cosa che abbiamo vissuto. Nella quinta didascalia troviamo ancora lo stesso soggetto; ora suggerisce allo scrittore quell’amore che, entrando troppo in profondità, causa traumi quando se ne va. La foto farebbe pensare a qualcosa di tetro, al lago di Natron in Tanzania, reso celebre dalle foto di Nick Brandt, che per eccesso di salinità mummifica gli animali che entrano nelle sue acque. Eppure Vittorio ritrova qui “un sazio mio vivere e un silenzio perfetto”.
Così le onde (foto 4), sono “una pantomima che distrae la morte, perché la vita abbia il sopravvento”. Il loro stesso moto perpetuo acquieta lo spirito in un magico “respirare dell’universo”. Esse poi (foto 7) diventano verdi curve femminili, per quando nel modo di una divinità ctonia, personificazione di elementari forze che sconvolgono il suolo.   
Interessante la personificazione degli elementi naturali. Come la grande quercia (foto 8): unica, sola, dalla chioma potente, che si staglia maestosa come il cosmico Axis Mundi, come la quercia sacra a Zeus o ai Druidi, intenti a interpretare nei loro riti divinatori il fruscio delle foglie. Per questo Vittorio fa dire alla quercia solitaria: mi sento pieno di parole struggenti.  
Le stesse parole struggenti pare di auscultare nel bosco che sale in cerca di una luce suadente e misteriosa (foto n. 10). È il mistero della coniunctio cielo-terra: il salire del bosco dalla terra al cielo. Ma sono le strade del cielo che, per Vittorio, servono “per capire meglio le meraviglie dei panorami sulla terra” (didascalia n. 9). E sempre alla foto 10 compare il ‘dio antico del Bosco’, quel Pan il cui nome significa la totalità e impulsività della natura. Il bosco, nel progredire di rami verso l’alto, esprime come Pan, un’idea arcana di espansione, un tutto che avanza e si innalza; “tronchi eretti come per la disciplina di soldati” (didascalia n.16).
Se per Vittorio le strade del cielo servono “per capire meglio le meraviglie dei panorami sulla terra”, ecco la meraviglia-stupore che opprime Dante, perché qualcosa di potente è davanti a noi e non riusciamo a spiegare, dunque ci toglie la parola. Così pare accadere nella foto 11, dove uno squarcio rompe e illumina una porzione di terra. La foto, una delle migliori, è potente, magica, come potente è l’azione colta dal fotografo. A ben vedere, due sono i momenti: il togliere la parola agli umani e, una volta privati di essa, “la luce che rischiara le anime” (didascalia 11), anzi svela la storia degli uomini pur “nella trama di un mondo mai scoperto del tutto”.
Questo rischiarare-svelare è tale anche di fronte a strati di rocce della foto 12.  Se la foto è simile a un sipario, ad una cortina di grigi modulati, senza fratture, la natura anche qui parla: con la sua coerenza, essa ci avverte che nonostante tutto, non ci estingueremo.
Stesso messaggio di speranza nella didascalia 17. Il fuoco che brucia e riduce in carbone che scalda: grande metafora di una trasformazione che non si ferma al ridurre in cenere (il tempus edax rerum di Ovidio, Metamorfosi, XV, 234) ma permette la vita: è il rotolare avanti per guardare il mondo, nel segno del rinnovamento, del far sorgere nuova vita, vitale, libera -il contrario dal fuoco-cherosene di  Fahrenheit 451.
Con il commento alla foto 18 il rinnovamento è, attraverso rivoli di neve, il trascinarsi giù, fino a valle, tra gli umani. Certo, il monte è di un quasi nero antracite, come se annerito da un fuoco che tutto ha mandato in fumo. Eppure, per Vittorio, quel trascinare giù è trascinare giù una luce pura fra gli umani, potenza di miracolo.
Come ha del mirabile permettere di nuovo la vita o conservarla come per miracolo. Ecco un tronco antico, spossato tra i sassi della battigia (foto 20), il cui riposo è necessario perché carico delle storie di uomini d’avventura.

Alla fine, stupore e metamorfosi, querce sacre e fuoco che brucia e rinnova vita, tutto pare indurre a un silenzio senza parole (didascalia 19): “nessuna parola si assoggetta davvero alla mia volontà di raccontare”. Le stesse istantanee di Luciano Giuliodori nel loro realizzarsi, sono la perfezione che ha raggiunto lo stadio di ‘nessuna parola’, cioè lo stadio di un’ermeneutica del silenzio, anzi del “silenzio perfetto”.
A conclusione, la fotografia di Giuliodori e le parole di Graziosi ci interrogano. Ma, ripeto, nella forma dell’idillio scaturito dall’impressione immediata di un soggetto che ancora prova la stessa contemplazione che fu del preromantico Williams Wordsworth in Il Preludio. Forse c’è la dis-tensione di anime pronte a cogliere echi lontani in momenti di ritiro e solitudine, nella forma ‘antica’ del colloquio dell’anima con se stessa. La sincerità di un tale nucleo potrà solo addurre un costante perfezionamento stilistico, una maturazione che può prendere altre strade, oltre il paesaggio stesso nella sua nudità e essenzialità.

Presentazione di Gabriele Bevilacqua

Nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, Fotografia e consorelle come la Video Arte, proprio in virtù della loro diffusione di massa in quanto media di dominio amatoriale, pare abbiano strappato quel testimone dell’artisticità storicamente accordato alla Pittura. Tuttavia più che il primato, oggi assistiamo a un profondo mutamento in corso nel campo delle poetiche contemporanee.
Lo riassumo: la destituzione del bello a favore di concetti mutuati ad esempio dall’Antropologia, come agency. Alla figura dell’artista pertanto fa seguito quella di artefice di indici che generano nuovi riferimenti esperienziali al mondo. L’esperienza estetica democratizza e l’arte si fa espansa, ma lascia spazi a temi apparentemente démodé.
Secondo la tradizione orientale in Tanizaki Jun’ichirō, la maestria (gei) sarebbe un perfezionamento infinito che si manifesta nel geinin, nel grande uomo d’arte, colui che sacrifica tutta la vita all’arte (geijutzu).
La maestria è infatti evidenza che sgorga direttamente dalla profondità dell’anima e non da un intelletto calcolatore, come per gli artisti occidentali che puntano più alla notorietà.
Graziosi e Giuliodori, ci interrogano sulla non-strana coppia di scrittura e immagine. Il fotografo avanza con le sue poesie visive, struggenti, silenziose -come mantra- mentre l’uomo, il dolore di Giobbe, è tenuto fuori scena. Lo scrittore si abbandona a parole che sgorgano da una fonte limpida, dalla profondità dell’anima.
Si dice che la pittura o la fotografia di paesaggi poetici rivelino un’anima solitaria, incline alla contemplazione del bello.
Più probabilmente, questo connubio artistico produce una combinazione di immagini prototipi di una diversa esperienza del paesaggio. Per questo c’è un continuum fra Giuliodori medico-fotografo e Graziosi scrittore.
Non un’improvvisazione accompagnata da calcolo e padronanza tecnica (che appunto non è maestria). Qui è in gioco altro.
Per dirlo meglio, potremmo ricorrere all’accezione leopardiana di idillio. Non il ‘vagheggiamento della bellezza in una quiete serena dell’anima’, non l’imitatio naturae, bensì il colloquio dell’anima con se stessa nella rappresentazione dell’universo naturale, impressione immediata frutto di quell’originario legame fra l’io e quell’infinito in cui “dolce è il naufragar”.

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