Newton e Mimran – Venezia, Le stanze della Fotografia

INGRESSO RIDOTTO TESS FIAF € 12

Helmut Newton. Legacy

28.03 – 24.11.2024

Le Stanze della Fotografia
Venezia, Isola di San Giorgio Maggiore

 

 Helmut Newton. Legacy è la più completa esposizione di uno dei fotografi più amati e discussi di tutti i tempi. Con più di 250 fotografie, polaroid e documenti d’archivio la mostra ripercorre attraverso i decenni l’immensa eredità lasciata da Newton, artista che ha sempre saputo vivere all’altezza della sua cattiva reputazione. Sull’isola di San Giorgio Maggiore, affacciata sullo splendido bacino di San Marco, gli scatti sospesi tra acqua e cielo enfatizzano ancora di più lo stile elegante e audace del fotografo. Tra immagini iconiche, un corpus di inediti che svela gli aspetti meno noti dell’opera del fotografo e gli approfondimenti specifici sui servizi di moda più anticonvenzionali.

 

Helmut Newton. Legacy is the most complete exhibition of one of the most loved and discussed photographers of all time. With more than 250 photographs, polaroids and archive documents, the exhibition retraces through the decades the immense legacy left by Newton, an artist who always knew how to live up to his bad reputation. On the island of San Giorgio Maggiore, overlooking the splendid San Marco basin, the photographs suspended between water and sky further emphasize the elegant and bold style of the photographer. Among iconic images, a corpus of unpublished works that reveal the lesser-known aspects of the photographer’s work and specific insights into the most unconventional fashion shoots.

 

INFO

 

Orari di apertura / Opening hours

Aperto tutti i giorni dalle ore 11 alle 19

Open everyday from 11am to 7pm

Chiuso il mercoledì / Closed on Wednesdays

 

Info e prenotazioni / Info and bookings 

www.lestanzedellafotografia.it

Call center
T. 02 91446111

preno.marsilioarte@vivaticket.com 

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OUT OF FOCUS
Progetto espositivo di Patrick Mimran

Il progetto espositivo della mostra di Patrick Mimran «Out of Focus», in programma fino all’11
agosto a Le Stanze della Fotografia,si propone di presentare gli ultimi dieci anni di ricerca dell’artista,
attraverso una serie di opere inedite mai esposte in Italia.

Nelle sale al primo piano, Mimran presenta 33 fotografie in bianco e nero di grandi dimensioni, la
maggior parte di esse associate a tre fotografie più piccole, a colori.

«Ho riflettuto molto sul mezzo fotografico durante il mio percorso e, ancor di più, durante la
realizzazione di questa serie» spiega Patrick Mimran «La fotografia è un mezzo artistico pieno di
contraddizioni. Da un lato, sembra essere il più adatto a rappresentare la realtà nel modo più oggettivo
possibile e, dall’altro, coloro che la utilizzano hanno tutti un’interpretazione diversa di ciò che è la
cosiddetta realtà oggettiva. Tutte queste interpretazioni si oppongono e divergono le une dalle
altre. Alcuni ritengono che il bianco e nero sia la forma di rappresentazione visiva più artistica e
maggiormente adatta a trasmettere l’oggettività di una scena o di un soggetto, mentre altri difendono
strenuamente la fotografia a colori. Lo stesso tipo di controversia esiste tra la fotografia digitale e
quella analogica. Per quanto mi riguarda, la realtà oggettiva non mi interessa. Non mi piace
vedere le cose come sono, ma come le immagino o come vorrei che fossero».

Ci si può chiedere perché Mimran usi lo strumento fotografico in modo opposto a quello per cui è
stato progettato. In altre parole, invece di rappresentare la realtà così com’è, con grande precisione e
maggiore realismo unito all’alta risoluzione,scegliere il contrario. È una decisione guidata da un’idea,
dal desiderio di originalità e novità o una scelta estetica? Nessuno di questi aspetti ha guidato la sua
scelta. In realtà, Mimran ha scoperto che per lui il modo migliore per catturare un soggetto, sia
esso un essere vivente o un oggetto inanimato, non è quello di rappresentarlo il più fedelmente
possibile, ma di allontanarsi al contrario il più possibile da esso, fino all’astrazione.

L’artista ha lavorato principalmente sulla mancanza di nitidezza, non solo dei contorni, ma
dell’intera immagine con l’obiettivo primario non di essere indeciso sulla definizione del soggetto
ma, al contrario, di farne emergere la realtà completa nel suo insieme attraverso uno sguardo che
all’inizio sembra astratto, ma che diventa sempre più realistico man mano che lo si osserva e che
contrasta con la nitidezza delle immagini a colori che, con il loro formato più piccolo, accompagnano
e definiscono le grandi fotografie.

«Ho scattato queste fotografie non catturando 1/125 di secondo della vita dei miei soggetti, ma bensì
uno o più secondi che, cumulati in una stessa immagine, trasmettono la mia visione di ciò che penso
essere la quintessenza del soggetto che fotografo… Una rappresentazione senza una forma definitiva
che sia soltanto una visione furtiva di un momento del soggetto che esiste in questa forma solo in
quel preciso momento e che non esisteva un millesimo di secondo prima e che non esisterà più un
millesimo di secondo dopo. Un po’ come fare il calco di un ectoplasma in movimento. È in questa
cumulazione di attimi che l’anima dei miei soggetti si rivela pienamente».

In Out of focus la maggior parte delle immagini riprodotte in grande formato è in bianco e nero ed è
accompagnata da tre fotografie più piccole a colori nelle quali il soggetto dell’immagine grande viene
riprodotto in un contesto altro e integrato, a sua volta, in un’altra fotografia. Un po’ come un taccuino
visivo che illustra i momenti e i luoghi in cui le grandi fotografie sono state create.

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LEGGERMENTE FUORI FUOCO
Testo di Denis Curti, direttore artistico de Le Stanze della Fotografia

Osservare le immagini di Patrick Mimran significa rinunciare al privilegio
della dell’ovvio e del conosciuto. Misteriose e oniriche, le sue fotografie si
intrecciano con la realtà con una intensità che invita a riflettere sulle nostre
relazioni con il tempo e con lo spazio. Per entrare in dialogo con queste opere serve
una rinnovata energia ed è necessario accettare la condizione della sospensione
dell’incredulità, tanto cara a Samuel T. Coleridge. Dentro quei bianchi e neri morbidi c’è
tutto lo spazio per insinuare il dubbio della bellezza e cogliere la potenza della finzione. È il
fascino della messa in scena. Dentro i colori acidi delle stampe più piccole, pensate
come specchi infedeli della realtà, c’è invece l’occasione di pensare alla
fotografia come a un passaggio segreto per raggiungere una realtà altra. Del
resto, lo stesso Mimran afferma di non voler sottostare ad alcun ordine realista. Non ci sono
“momenti decisivi” in queste fotografie. C’è un tempo dilatato ed espanso. C’è un centro
vibrante così potente e morbido e commovente che fa sì che gli occhi di chi guarda si possano
perdere e, finalmente, riposare.

L’ispirazione è verso il cinema noir e il progetto Out of focus di Patrick Mimran
gravita attorno a un dualismo di carattere mitologico per cui la donna e l’uomo
rappresentano, a tutti gli effetti, le due facce di un solo organismo. Mimran,
attraverso la poetica della manipolazione tecnologica, desidera sanare quella scissione del
legame anatomico che Platone, nel suo Simposio, riconduce alla spietatezza di Zeus. Qui, il
tentativo di colmare una mancanza, in particolare quella della propria completezza, si unisce
al desiderio di rinascita. In altre parole, Mimran crea, o meglio, ri-crea lo spazio vuoto che
si forma nel passaggio tra immaginazione e realizzazione. Non solo, Mimran opera in un
presente fotografico talmente intenso che il concetto di futuro e quello di memoria si
perdono l’uno nell’altra.

All’atto pratico decide di offrire all’osservatore un’immagine capace di rappresentare la
versione più lontana possibile dal vero aspetto estetico del soggetto che ritrae. I personaggi
di queste riprese vengono distorti, ne viene cancellato ogni riferimento concreto, per
trasformarsi in una visione sognante, figlia dell’astrattismo e del surrealismo.

Ci troviamo nella dimensione dell’inconscio, in un perpetuo fluire iconografico
di figure indefinibili, che sfidano l’occhio del pubblico a rintracciare la
geometria originaria. Si direbbe un’opera costruita unicamente per lasciare
spazio all’ambiguità, perché la fotografia, contrariamente alla sua
compostezza strumentale, è pura menzogna. Ecco allora che Mimran raccoglie i
frutti di quella illusione di verità e prende per mano una dimensione fiabesca e la fa propria.
Su questo limite incontrollabile viene restituita all’osservatore la sovranità di interpretare
liberamente questa rielaborazione della realtà.

Dal punto di vista operativo Mimran si muove come uno sciamano
contemporaneo, perché va oltre la materia per cercare l’essenza. Parte da un
fermo immagine filmico, prescelto da una personalissima lente di ingrandimento, e lascia
che il tempo si depositi sul risultato finale. Attraverso tagli asimmetrici, perdite di nitidezza
e capovolgimenti semiotici, riconsegna al soggetto originario una rinnovata verginità visiva,
capace di dare forma a una nuova scrittura, basata sul sentimento dell’armonia. È un flusso
continuo di gestualità spezzate, scardinate dal contesto originario, che travalicano il
concetto stesso di “messa in scena”.

In Mimran la negazione della testimonianza accompagna l’occhio in superficie,
lo attira in un gioco di desideri destinati a rimanere eterei, perché quella tra
l’osservatore e queste immagini è una interazione accennata e mai completamente finita. È
il brivido della sospensione, generato dalla sensazione che qualcosa stia per accadere. Anche
Hiroshi Sugimoto con i suoi Seascapes (1980-1990) o i suoi scorci panoramici, contenuti
nella serie Architecture (1990-2000), sceglie di narrare una storia attraverso una forma

indefinita. Fa prendere alla realtà un altro corso, la instrada verso una riscrittura totale dei
consueti codici percettivi. Allo stesso modo le immagini di Mimran sono pregne di elementi
destrutturati, molto distanti dal momento autentico dello scatto: chi le osserva è invitato a
trovarne una collocazione ultima.

A corredo di un percorso travolgente, fondato sull’architetture monocromatica
di opere di grandi dimensioni, troviamo delle immagini di piccolo formato che
sintetizzano dal carattere installativo. L’autore immette l’oggetto-foto in contesti
inusuali, per esempio nei micro-ambienti di un bagno casalingo o nei ripiani claustrofobici
di un frigorifero. Questo contrasto attua un superamento del pregiudizio narrativo,
generalmente collegato alla trasmissione di contenuti affini e coerenti al racconto. Nel
complesso questi allestimenti integrativi seguono un andamento parallelo al suo stato
emotivo. Esattamente come la città di New York per Saul Leiter, a cavallo tra gli anni
Quaranta e gli anni Cinquanta, anche per Mimran l’incursione del colore in un
contesto asettico, tanto più dominato dal bianco e nero, sintetizza un bisogno
di intimità. È lo specchio del suo vissuto, sintesi diretta di una intenzionalità costruita sullo
sguardo pittorico.

Le visioni di Mimran, in ultima analisi, si concentrano sull’essenza della
condizione umana, che è la somma di armonia e caos allo stesso tempo.
Catalogano sguardi, increspature corporee, mescolanze di gesti ed effusioni per disegnare
con la luce le complessità dell’anima. Sono immagini che chiedono a gran voce di
essere guardare, capite, respirate e adottate, in quanto tracce del nostro
passaggio. Non c’è inizio e c’è fine, così come così come nelle inafferrabili narrazioni visive
di Duane Michals, maestro indiscusso di quell’approccio di profonda e istintiva leggerezza.
Qui regna l’istinto più che la ragione.

Quelle di Patrick Mimran sono fotografie mosse dal suo bisogno viscerale di
costruire un tributo a ciò che ci avvolge e sconvolge. A ciò che ci culla e ci affoga.

Sono immagini che offrono la possibilità di rinunciare vincolo documentario. È così che i
suoi soggetti finiscono per cesellare la nostra mente: un frame dietro l’altro, scena
dopo scena, lasciano i segni di un susseguirsi di dediche e di sentimenti antitetici, per
approdare, finalmente, nel labirinto del dubbio.

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