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Terremoto: i giovani e quel loro entusiasmo che non va mai spento

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4314.0.326372474-kLo-U43220195055086b5C-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443Per i ventenni italiani, il sisma del 24 agosto nel Centro Italia rappresenta un drammatico esordio: in molti sono partiti con slancio per dare una mano, come gli «angeli del fango» accorsi nella Firenze alluvionata del 1966

di BEPPE SEVERGNINI

Per un sessantenne italiano, i terremoti sono una drammatica replica. Era poco più d’un bambino, ma ha ancora negli occhi le immagini del Belice nel 1968, quei volti stralunati. Aveva vent’anni, e non ha dimenticato la pietà ammirata per i friulani del 1976. Ricorda l’ecatombe in Irpinia, quattro anni dopo. Da adulto, ha visto crollare le basilica di Assisi nel 1997 e i palazzi dell’Aquila nel 2009. Ora Amatrice, Accumoli, Arquata: stesso comprensibile dolore, stessa rassegnata sorpresa, stessi slanci di generosità. Per un ventenne italiano, questo terremoto rappresenta invece un drammatico esordio. Non lo dimenticherà più. Non è indifeso, quella ragazza o quel ragazzo, davanti a certe immagini. È più forte di noi, invece. Non rischia la retorica degli aggettivi, la stanchezza della descrizione, l’inflazione della compassione, la voglia di giustizia che, subito, diventa lamentela. Ha occhi, cuore, idee e strumenti nuovi: li sta già usando.

 

La prontezza e lo slancio

Lo slancio dei giovani italiani aiuta tutti, in queste ore. C’è chi è partito per dare una mano, chi è rimasto e pensa come rendersi utile. Molti di noi — i loro padri e le loro madri — osservano e pensano: «Sono ammirevoli, ma sono ingenui; s’illudono e verranno delusi. Non sanno che ogni terremoto è seguito da polemiche, esibizioni politiche, lentezze e sprechi?». Risposta: non lo sanno e non devono saperlo. Devono poter credere che, stavolta, sarà diverso. E potrebbe esserlo, se solo volessimo. Un ventenne non possiede solo prontezza, forza fisica e resistenza (non ci sono alberghi con tutti i comfort, per i volontari); ha anche gli occhi sgombri di precedenti e la mente libera da pregiudizi. Non conosce la successione di eventi e sentimenti che segna, troppo spesso, queste occasioni: emozione, distrazione, speculazione, frustrazione, rassegnazione. Un ragazzo di vent’anni vuole cambiare le cose: e può farlo. Può farlo, faticosamente, offrendosi volontario a una delle organizzazioni impegnate nelle tendopoli e nella distribuzione di aiuti. Può farlo, pazientemente, sapendo che non è facile né immediato allestire campi di accoglienza in una zona dalla viabilità impervia. Può farlo, saggiamente, portando la sua competenza (i giovani della Coldiretti hanno deciso di aiutare le aree colpite, che vivono di agricoltura e allevamento). Può farlo, baldanzosamente, tirando fuori una tenda (ad Arquata del Tronto dieci ragazzi campeggiano nel campo sportivo). Può farlo, sportivamente, offrendo un aiuto a due ruote: in certe condizioni, le motociclette sono più agili (il Moto Club Rieti è già mobilitato). Può farlo, generosamente, donando il sangue. Può farlo, banalmente, scaricando un’app che segnali ogni evento sismico (ce ne sono molte su App Store): anche le piccole cose, in fondo, servono a spiegare e tranquilizzare. Può farlo, coraggiosamente, rifiutando certi automatismi. Ricostruire? Certo. Ma quanto, come, dove? Tutto, ovviamente, non si può. Può farlo, saggiamente, aspettando.

Le tragedie del passato

«Consapevoli che in questa primissima fase serve personale specializzato, ci mettiamo a disposizione in una fase successiva, più legata alla ricostruzione». Così ha scritto un gruppo di profughi nel Trevigiano: giovani anche loro, certo. La tragedie — sono i terremoti — uniscono e segnano le generazioni. C’è chi si è conosciuto e innamorato a Gemona del Friuli, quarant’anni fa, spostando macerie. C’è chi è accorso nelle zone colpite dal sisma tra Bologna, Ferrara, Reggio Emilia e Modena quattro anni fa («Cinquecento impronte straordinarie per l’Emilia» era il titolo di una mostra sul lavoro dei ragazzi del servizio civile). C’è chi ha aiutato Genova allagata, nel 2011 e nel 2014. La stessa cosa accadde cinquant’anni fa a Firenze, per la prima volta. Giovani di tutta Italia accorsero per salvare opere d’arte e manoscritti, minacciati dall’alluvione. Giovanni Grazzini, sul Corriere della Sera, il 10 novembre di quell’anno, gli regalò un nome: «Angeli del fango». «Chi viene, anche il più cinico, anche il più torpido, capisce subito che d’ora innanzi non sarà più permesso a nessuno fare dei sarcasmi sui giovani beats. Perché questa stessa gioventù oggi ha dato un esempio meraviglioso, spinta dalla gioia di mostrarsi utile, di prestare la propria forza e il proprio entusiasmo per la salvezza di un bene comune. Onore ai beats, onore agli angeli del fango». Fango, allora, a Firenze. Ad Amatrice, Accumoli e Arquata, pietre e cemento. Ma lo spirito di chi accorre e aiuta non cambia. Anche la nostra ammirazione dovrebbe restare la stessa.

© Corriere della Sera

 

 

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