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“CRI – storie brevi d’integrazione”, di Enrico Genovesi

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“CRI – storie brevi d’integrazione”, di Enrico Genovesi

A volte le storie di volontariato s’intrecciano con storie d’integrazione, come ci mostra Enrico Genovesi in questo lavoro che testimonia delle positive relazioni umane che, in modo umile e silenzioso, partecipano alla condivisione di un contributo sociale e civile di grande spessore: Diop Mbaye e Tall Cheikh provengono dal Senegal, lavorano stabilmente in agricoltura, e nel tempo libero prestano la loro opera assistenziale come volontari nella Croce Rossa Italiana.

 Attilio Lauria

Nato nel 1962, Enrico Genovesi, vive a Cecina e fotografa dal 1984 dedicandosi prevalentemente al reportage a sfondo sociale su storie italiane. Alcuni lavori sono stati pubblicati in libri fotografici monotematici; sue immagini sono state distribuite dall’Agenzia ”Grazia Neri” di Milano, e successivamente, fino a tutto il 2012, è stato rappresentato da Emblema photoagency. Ha all’attivo numerosi premi, riconoscimenti e pubblicazioni di varia natura; tra i tanti, ricordiamo il “Premio Marco Bastianelli”, assegnatogli  nel 2006 per il libro “Equal, Ingresso al Lavoro”; nel 2011 con “Spettacolo Nostalgia” si aggiudica il “Roberto del Carlo – Lucca Photo Contest” ed è in mostra al Lucca Photo Fest. Nel 2012 è nominato “Autore dell’Anno” dalla FIAF da cui la monografia “About”. Nello stesso anno pubblica il libro “Acqua Village” che nel 2013 si aggiudica il “FIOF Book Prize” del Fondo Internazionale di Orvieto Fotografia. (www.enricogenovesi.it/)

  • Cos’è che ti ha spinto ad interessarti del volontariato?

Il volontariato è parte integrante la ricerca che oramai caratterizza il mio fare fotografia. Nell’occuparmi prevalentemente di tematiche sociali ecco che diventa molto frequente rapportarmi con queste belle realtà. Il volontariato entra quindi soprattutto di riflesso nelle tematiche che tratto, ma in alcuni casi, un esempio tra tutti “l’Opera del Banco”, ne è stato viceversa il vero argomento di indagine. Questo reportage andava ad approfondire l’operato dell’associazione nazionale Banco Alimentare ONLUS attraverso i vari momenti di recupero di derrate alimentari, prima, e la loro ridistribuzione nei luoghi del bisogno, dopo.

  •  Per evitare il rischio di una rappresentazione retorica o semplicemente celebrativa è necessario approfondire la conoscenza del mondo del volontariato: come ti sei preparato all’approccio con questa realtà?

Inizialmente non avevo un’idea precisa di quelle che fossero le reali dinamiche che caratterizzavano il loro operato, se non per la Giornata Nazionale della “Colletta Alimentare”, pratica visibile a tutti e che tradizionalmente si svolge ogni anno, l’ultimo finesettimana di novembre, presso i centri commerciali alimentari italiani. La mia innata curiosità mi ha spinto a saperne di più e, nel documentarmi, come sempre avviene, mi si è aperto un mondo tutto da scoprire e che stimolava la mia volontà per un approfondimento fotografico. Da lì l’esigenza di dovermi rapportare da subito con la sede centrale di Milano, poi con alcune sedi periferiche e, soprattutto per quanto riguarda la ridistribuzione delle derrate, con alcune mense dei poveri, comunità di recupero, e associazioni locali che si occupavano di distribuire i pacchi alimentari ai bisognosi direttamente alle loro abitazioni.

Per altri lavori, come ad esempio quello realizzato negli ambienti di una sede della Croce Rossa locale è stato sufficiente prendere contatti per le autorizzazioni e trascorrere un po’ di tempo con loro. Mi ha particolarmente colpito, ad esempio, che alcuni ragazzi senegalesi dopo aver lavorato di giorno alla raccolta nei campi dedicassero parte del loro tempo libero come volontari sulle ambulanze. Persone che spesso, generalizzando, vengono guardate con diffidenza, sono in realtà protagoniste di un gesto di disponibilità verso il prossimo davvero encomiabile.

Ma credo fermamente che il mondo del volontariato sia ricco di imponderabili esempi di generosità. Sarà bellissimo, attraverso il nuovo Progetto Nazionale FIAF, scoprirne le molteplici realtà. Sono certo che si rivelerà per molti fotografi una proficua opportunità di relazione umana, non solo fotografica. Come sono certo che la documentazione prodotta possa essere foriera di ulteriori soddisfazioni.

  •  Altre qualità necessarie immagino siano empatia e rispetto per i soggetti fotografati

Il fotografo è di per sé invasivo e sempre un inaspettato intruso. Con questa consapevolezza dovrà quindi mettere in campo tutte quelle strategie d’azione che mitighino il suo operato. Professionalità, discrezione, capacità relazionale ed esperienza diventano determinanti e saranno le prerogative che si rifletteranno sulla qualità del lavoro. Impossibile poi trattare queste tematiche senza entrare direttamente in contatto con i soggetti, che saranno a quel punto più disponibili di quanto si è solito pensare; sì, perché in generale alle persone fa piacere che qualcuno presti loro attenzione, le fa sentire in qualche modo interessanti.

  •  Si riesce ad essere testimoni neutrali nel realizzare un reportage di questa natura, o si rappresenta comunque il proprio punto di vista?

Al di là degli specifici codici che caratterizzano la fotografia, non credo che sia poi così diversa da altri linguaggi. Forse coloro che fanno giornalismo di penna riescono a descrivere fatti in modo asettico e neutrale senza interpretarli? Perché quindi in fotografia non dovrebbe accadere lo stesso? Penso sia impossibile che un fotografo, anche quando intenzionato a porsi come testimone neutrale dei fatti, riesca poi ad esserlo davvero. In prima istanza ci ritroviamo a decidere se e quali argomenti trattare, e già questo mi sembra un significativo “prendere le parti”. La fotografia poi ci chiama a chiudere in una porzione limitata di spazio ciò che abbiamo davanti, e poi ancora a decidere il “come” rappresentare ciò che osserviamo. Tutto questo significa interpretare, e a mio parere è anche uno dei presupposti più importanti per fare della buona fotografia.

  •  Di questa esperienza umana ancor più che fotografica ti è rimasta impressa qualche storia in particolare?

L’esperienza umana vissuta è ogni volta una sorpresa e ti rimane addosso. Non so spiegare il perché ma mi è difficile trovarne una che si è rivelata più particolare delle altre. Il rapportarsi ad esempio con delle persone che soffrono un disagio e che ti raccontano le loro vicissitudini come se tu potessi far qualcosa per loro, indifferentemente dal caso in questione, ti carica di una responsabilità che in qualche modo dovrai gestire. Ogni volta sei costretto a porti quella che io penso debba essere la domanda chiave per un fotografo che decide di trattare questo tipo di storie: perché fotografare questo? E’ soltanto la profondità della risposta che può dar senso al nostro agire.

  •  Dal punto di vista del linguaggio fotografico diversi lavori ricorrono ad una grammatica fatta ad esempio di luci e ombre incise per dare forza alla rappresentazione, o all’esasperazione drammatizzante dei contrasti, cosa ne pensi?

Il linguaggio tecnico è solo una componente del processo espressivo, certamente può contribuire a meglio focalizzare il nostro intento comunicativo ma guai se si sostituisse al vero messaggio dell’immagine. Purtroppo non di rado mi capita di osservare fotografie sorrette esclusivamente da una accattivante grammatica rappresentativa peraltro applicata con grande padronanza tecnica, insomma delle vere e proprie performance estetiche. Al di là del piacevole impatto visivo, personalmente mi rimane dentro ben poco di questo tipo di immagini. Nell’ambiente amatoriale è un argomento molto dibattuto che difficilmente potrà mettere tutti d’accordo. Mi limito quindi ad esprimerlo come parere personale.

Altro aspetto molto complesso è invece dosare questi elementi di “grammatica” su una fotografia di contenuto. Indovinare il giusto mix d’intervento sull’immagine senza che questo prenda il sopravvento sul contenuto, non è affatto facile, richiede grande consapevolezza.

  •  C’è spazio secondo te per lavori concettuali, oltre il reportage documentario?

Perché no? Anche se è un tipo di fotografia distante da quella che pratico e con la quale delle volte faccio fatica a rapportarmi, penso che lavori concettuali non solo troveranno spazio, ma che dovremmo anche aspettarci delle belle sorprese. Mi sembra riduttivo pensare che l’interpretazione di un tema così ricco e aperto come quello del volontariato debba solo passare attraverso il reportage documentario. Con il concettuale si da luce ad un’idea in un modo tutto suo, curioso, intrigante e fantasioso. E’ una forma espressiva in cui si identificano oramai molti autori e devo dire che, proprio in virtù dei miei limiti prima espressi, è un linguaggio che osservo con molto interesse.

  •  Immaginiamo di essere in un tuo workshop, quali consigli ti sentiresti di dare ai nostri lettori?

Siate curiosi! Non fermatevi di fronte alle apparenze e prendetevi tutto il tempo necessario per scendere in profondità di ciò che tratterete. Cercate di dare sostanza alle vostre immagini ed utilizzate il linguaggio estetico solo per rafforzarla. Accantonate la logica della competizione fotografica, in questo caso nessuno vi chiede di dimostrare la vostra capacità. Non perdete di vista il fatto che siete voi ad essere a servizio di un’operazione e non il contrario, quindi fotografate per mostrare l’importanza dell’argomento che trattate, non per dimostrare la vostra bravura. Siate discreti con le persone che fotografate, agite sempre con rispetto e con la massima umiltà. Se desiderate che le vostre fotografie comunichino e che siano meritevoli di considerazione dovete far sì che il vostro lavoro risulti “interessante”!

  •  È questo il mondo possibile?

Siamo fotografi e sarebbe sufficiente riuscissimo a dare un giusto senso a ciò che facciamo, umilmente e con semplicità. In questo caso cercheremo di dare visibilità a un mondo, quello del Volontariato, delle volte nascosto, e che invece meriterebbe attenzioni e gratificazioni per il proprio operato. Non credo spetti a noi dare delle risposte, ne tantomeno spetta alla fotografia. Il massimo risultato che possiamo ottenere dalle nostre immagini, questo sì, è che siano capaci di porre domande, interrogativi, diano modo di riflettere.

  1. isabella tholozan says:

    Ha ragione Enrico, quando dice che questa occasione porterà alla conoscenza di realtà fino ad oggi note solo agli addetti ai lavori e ai volontari stessi.
    Una realtà che, secondo il mio parere, aumenterebbe di molto il pil del nostro paese, se fosse parametrato al livello dell’industria e del commercio.
    Di certo il progetto “Tanto per tutti” offrirà un buon palcoscenico, naturalmente a tutti, anche ai fotografi impegnati ma, principalmente, all’attività di volontariato che tanto, in sienzio, offre.
    Guardando il lavoro di Genovesi non posso che pensare agli eventi tristi che hanno coinvolto me e la mia famiglia e di tutte quelle volte che ho avuto bisogno dei militi delle Croci.
    Sorrido, pensando a quell’omone grande e grosso che, per mancanza di spazio, prese mia mamma in braccio, alzandola come un fuscello e causandole un gridolino di sorpresa mista a divertimento.
    Tutto questo è vita, quella vera!

  2. Attilio Lauria says:

    Isabella, è proprio questo che ci piacerebbe fosse tradotto in immagini, quel gridolino di sorpresa misto a divertimento, quella vicinanza umana che fa dei volontari molto di più di coloro che rendono un servizio indispensabile: ci piacerebbe rendere visibile l’animo, l’empatia, la straordinarietà umana del volontariato! 🙂

  3. Massimo Pascutti says:

    Ormai Enrico Genovesi ci ha abituati a lavori di grande spessore visivo ed umano e anche quest’ultimo non fa eccezione. Il racconto semplice , ma pieno di forza proprio perchè semplice, dei due senegalesi volontari della Croce Rossa, ci raggiunge al cuore e ci avvicina alle splendide realtà presenti nel mondo del volontariato.
    Grazie ad Enrico per il suo impegno e la sua competenza.

  4. Gabriele Bartoli says:

    Il lavoro di Roberto è semplice, diretto. E, al solito, la sua semplicità è pari alla sua bellezza. Ha diretto il suo sguardo verso il mondo della Croce Rossa, che, inevitabilmente, attraverso il suo operato tocca la sofferenza umana. Nella sofferenza, purtroppo quella estrema, molte barriere non solo cadono, ma non esistono. Ci si affida a mani che, sconosciute, si adoperano al meglio delle loro possibilità. In quest’ottica vedo l’ultima immagine, emblematico finale.

  5. Andrea Angelini says:

    Voglio solo sottolineare le parole di Enrico che esprimono in pieno il corretto modo di come ci si deve porre davanti ad un nuovo progetto ed in particolare ad una esperienza umana come deve essere TpT:

    “Siate curiosi! Non fermatevi di fronte alle apparenze e prendetevi tutto il tempo necessario per scendere in profondità di ciò che tratterete. Cercate di dare sostanza alle vostre immagini ed utilizzate il linguaggio estetico solo per rafforzarla. Accantonate la logica della competizione fotografica, in questo caso nessuno vi chiede di dimostrare la vostra capacità. Non perdete di vista il fatto che siete voi ad essere a servizio di un’operazione e non il contrario, quindi fotografate per mostrare l’importanza dell’argomento che trattate, non per dimostrare la vostra bravura. Siate discreti con le persone che fotografate, agite sempre con rispetto e con la massima umiltà. Se desiderate che le vostre fotografie comunichino e che siano meritevoli di considerazione dovete far sì che il vostro lavoro risulti “interessante”!

    Un concentrato di verità ed uno straordinario consiglio per partire con il piede giusto in ogni progetto fotografico e non e che tutti dovremmo far diventare nostro.
    Un lavoro straordinario. Grazie Enrico!

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