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Quando i volontari usano la fotografia #2

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Quando i volontari usano la fotografia #2

Ancora un esempio di come la passione fotografica possa coniugarsi con il volontariato: oggi presentiamo l’Associazione Italiana Fotografia Sociale, nata nell’aprile del 2009 dalla volontà di quattro fotografi – Gabriele Caproni, Giuseppe Vitale, Samuele Bianchi, Antonio D’ambrosio – di promuovere un’alternativa alla fotografia in cui la spettacolarizzazione e l’estetizzazione del dolore sono l’aspetto dominante, e che facendo leva sulla reazione emotiva dello spettatore, finisce in realtà per assuefare le coscienze.

Attilio Lauria

Ne parliamo con Gabriele Caproni, Presidente del Collegio dei Revisori FIAF

  • Perchè un’agenzia dedicata al terzo settore?

Grazie dell’agenzia, ma in realtà siamo un gruppo di amici che ha deciso di dedicare del proprio  tempo  a fotografare chi molto spesso non ha voce o l’ha talmente flebile da non essere udita. Soprattutto, siccome ciascuno di noi non lo fa per lavoro, abbiamo deciso di fare noi stessi una sorta di “volontariato fotografico” nel tentativo di diffondere quanto di buono accade intorno a noi.

Purtroppo nel mondo della comunicazione solo una cattiva notizia è una “buona notizia” da diffondere,  utilizzare (e vendere). Forse perché l’uomo tende a vedere nelle disgrazie degli altri una propria consolazione, “io non sono così”,  mentre quello che succede di buono spesso è silenzioso e celato. Eppure merita di essere diffuso, persone che dedicano parte della loro vita, spesso una parte importante, al servizio degli altri. Anzi, riuscire a diffondere ciò che alcuni  fanno potrebbe essere stimolo o spunto perché altri trovino la soluzione ai loro problemi. E’ sono una questione di comunicazione.

Spesso il fotografo professionista non ha tempo di dedicarsi a questioni sociali, non sono notizie e difficilmente danno reddito. Solo le grandi associazioni di volontariato possono permettersi lavori professionali. Per noi “volontari” della fotografia rimane quindi molto spazio in cui poter agire con soddisfazione reciproca.

  •  Per evitare il rischio di una rappresentazione retorica o semplicemente celebrativa è necessario approfondire la conoscenza del mondo del volontariato: come si prepara l’approccio con questa realtà?

Il mondo del volontariato ha molte forme e si rivolge ad una platea di utenti molto differenziata. A seconda dell’utente o dello scopo del volontariato l’approccio sarà necessariamente diverso.

Intanto sicuramente dobbiamo scegliere un argomento che ci interessa o ci incuriosisce, non possiamo fare bene il nostro lavoro se non abbiamo una molla che ci dice: “questa cosa la voglio capire, la voglio conoscere, mi interessa, lo farei anche se non ci fosse il progetto nazionale”.

Internet è una fonte di informazioni. Presso le CCIAA sono tenuti gli elenchi delle associazioni di volontariato. Se non ho idea di cosa fotografare lì mi posso sbizzarrire nella scelta.

La cosa migliore e ovvia è cercare il contatto con i referenti. O conosciamo qualcuno che ci può introdurre, oppure bussiamo alla porta. Più l’organizzazione è grande e più avremo la possibilità di trovare chi si occupa della comunicazione, ma nel contempo l’impegno sarà sicuramente maggiore, forse non espletabile in un anno che è il tempo dedicato al progetto FIAF.

Per esperienza, ad una proposta seria corrisponde una risposta seria. Nel nostro caso (FIAF) penso che le porte si apriranno facilmente. La prima fase è comunque una raccolta dati. Vedere se quello che mi ero immaginato corrisponde alla realtà, e soprattutto se questa realtà è fotografabile.

Un’altra cosa importante per il successo del progetto è che l’interesse deve essere veramente reciproco: noi dobbiamo essere contenti di fotografare e l’associazione contenta di essere fotografata. Allora ci dà pieno appoggio e informazioni. Altrimenti rischiamo di andare a fotografare oggi, ma quello che ci interessa si svolge domani e nessuno ce lo ha detto.

Parlare il più possibile con tutti, ascoltare il punto di vista dei volontari, i loro interessi e le loro opinioni. Ciascuno di loro ha una visione della realtà in cui opera e ci può dare spunti interessanti.

Le associazioni con cui entreremo in contatto hanno la loro attività istituzionale, noi dobbiamo trovare il modo di rappresentarla e raccontarla nel modo più efficacie possibile.

  •  Altre qualità necessarie immagino siano empatia e rispetto per i soggetti fotografati.

Quando decido cosa fotografare, è come essere in cima ad una scogliera e decidere se tuffarsi oppure no. Non vi è una via di mezzo. Ma quando decidi di farlo, lo devi fare con tutta la tua anima e il tuo corpo. Non puoi tuffarti male. Sopratutto perché decidi di rapportati con persone che soffrono o hanno sofferto, che hanno difficoltà a fare le cose più semplici, fosse salire un gradino.

In quel momento devi essere disposto ad accettare la persona che hai davanti, cercare di capire le sue problematiche ma pronto a scoprire  le sue gioie.

Soprattutto quando ci rapportiamo con soggetti “deboli” dobbiamo sempre pensare “se io fossi così come vorrei essere  rappresentato?”

La sofferenza delle persone la conosciamo, ce la fanno vedere in tutti i modi, cerchiamo con le nostre immagini di fotografare i loro successi, magari piccoli, entrare “tra camicia e pelle”. Ognuno ha qualcosa di cui essere fiero e voler mostrare.

La dignità l’uomo non la perde per come è, ma per come si comporta  coscientemente.

Occorre passare molto tempo, conoscere il percorso delle persone, non essere mai invadenti e volere fare la foto per forza. Tu mi doni la tua immagine, io devo fare in modo che tu ne sia (o saresti)  contento.

  •  Si riesce ad essere testimoni neutrali nel realizzare  dei reportage di questa natura, o si finisce per prendere le parti?

No, non si può essere testimoni neutrali.

In realtà quando fotografiamo non lo siamo mai, al momento dello scatto abbiamo già deciso da che parte stare: fotografo questo edificio per dimostrarne la magnificenza oppure per dimostrare quanto sia in contrasto con l’ambiente? Ed è solo un edificio. Figurati quando fotografiamo una situazione in cui sono coinvolti gli esseri umani, noi stessi con la nostra natura.

Forse non puoi nemmeno fotografare bene se non ti senti parte di quello che fotografi. Se non siamo coinvolti,  siamo distanti. Se siamo distanti, questa distanza la vedremo anche nelle nostre fotografie. Magari saranno perfette, ma rischiano di non avere un’anima.

  •  Di questa esperienza umana ancor più che fotografica ti è rimata impressa qualche storia in particolare? 

Molte sono le cose che potrei raccontante. Intanto parlando  nel  complessivo potrei dire che molte situazioni che non riteniamo facili, diverse, sconosciute molto spesso ci riservano sorprese incredibili. Ad esempio nel G.V.S. (Gruppo Volontari della Solidarietà di Barga) ho trovato una grande ricchezza fatta di sorrisi e tranquillità, una realtà nella quale  il senso dell’amicizia è molto diffuso, dove malizia, calcoli di convenienza e invidia rimangono fuori della porta.

In questa situazione mi è sorto un dubbio: “Chi aiuta chi, al G.V.S.?”. I volontari o gli utenti, che con la loro voglia di vivere, di sorridere e di esprimersi ricaricano le esauste batterie di noi cosiddetti “normali”, che combattiamo ogni giorno con una vita scandita da ritmi lavorativi frenetici, da programmi televisivi insulsi, da mancanza di rispetto per noi stessi e per il prossimo, da arrivismo e da ricerca spasmodica di successo?

Mi piace citare una frase di Albert Einstein: “Il valore di un uomo dovrebbe essere misurato in base a quanto dà e non in base a quanto è in grado di ricevere”. Se pensiamo che questa frase contenga una verità allora al G.V.S. sono tutti grandi uomini e grandi donne:  indistintamente tutti danno.

Un’altra cosa mi ha colpito: la necessità di contatto fisico. Il comunicare con gesti, con abbracci, con lo stare vicino. E questo ha aperto un’altra contraddizione profonda in un mondo in cui tendiamo ad allontanarci gli uni dagli altri, dove i rapporti umani e affettivi si mantengono con Internet, dove non si ha più il coraggio di dire le cose guardandosi negli occhi ma si ricorre a un freddo SMS.

Mi ricordo Fosca, una anziana signora che spesso alternava fragorose risate profonde crisi di tristezza e pianto, cercando conforto in un abbraccio. L’ho ritrovata nella casa famiglia dove avevo portato  mio padre per una terapia riabilitativa e dove purtroppo è deceduto. In quel momento è venuta ad abbracciarmi lei. Eppure gli avevo fatto solo delle fotografie…

Oppure Renatone, un signore semplice e simpaticissimo, “Sì,  mia mamma mi ha dato i soldi per il gelato”, ma sempre attento a tutto. Un giorno arrivai in un posto dove festeggiavano il compleanno  di Andrea, un altro ragazzo che sta sulla sedia a rotelle. Li vidi nel giardino della scuola. Fermata la macchina nei parcheggio adiacente, mi sento aprire lo sportello: “Vieni Gabriele, sei in ritardo, vieni a fare le foto!” mi stava dicendo Renatone con un sorriso!

Mi raccontava un operatore:” Guarda che ti aspettano, se non vieni alle uscite gli sembra che gli manchi qualcosa.”

Come fai a rimanere indifferente? Anche se poi il distacco è necessario, te sei li per uno scopo, raccontare la loro storia in un dato momento, finito il lavoro altre cose ti aspettano. Ma intanto una bella nuotata l’hai fatta.

  •  Dal punto di vista del linguaggio fotografico diversi lavori ricorrono ad una grammatica fatta ad esempio di luci ed ombre incise per dare forza alla rappresentazione, o all’esasperazione drammatizzazione dei contrasti, cosa ne pensi?

Intanto una premessa necessaria: l’unica regola che esiste in fotografia è che non vi sono regole  e se un lavoro per il soggetto richiede ombre incise e drammatizzazione ben venga che siano applicate.

Ma attenzione: troppo spesso immagini urlanti di contrasto, luci ed ombre, esasperatamente grandangolari e ravvicinate sono presentate in questo modo per soddisfare quella che si presume sia la fame di orrore e di “voyeurismo” dello spettatore, assuefacendolo visivamente alle situazioni drammatiche che ogni giorno accadono nel mondo. È una pratica che costringe a urlare sempre più forte. Ovvero, per cercare di riempire di contenuto immagini o situazioni oggettivamente deboli.

Personalmente ammiro quegli autori che “fotografano di pancia”, e che con immagini  parziali, contrastate, tagliate, sfuocate, riescono a farci entrare nel cuore del problema, ma ne purtroppo ne conosco pochissimi che riescono a farlo con dignità e efficacia reale nel contempo. Un primo pensiero mi va a Stefano De Luigi.

Invece a me so che non riesce. Io nelle mie foto mi accontento di  mostrare, nel modo più chiaro possibile.  Come fotografo preferisco non esserci, lasciare tutto il palcoscenico ai miei soggetti,  muto testimone del loro vissuto. Cercare di scovare quelle situazioni che toccano le corde del mio cuore e mi fanno dire: “ecco, questo merita di essere visto!”. Naturalmente non sempre ci si azzecca, ed il sentire personale non è detto che si riesca a inserirlo in un rettangolo due per tre di lato.

Se le situazioni sono delicate, e molto spesso quelle del mondo del volontariato lo sono, occorre essere delicati, anche con le nostre immagini. I problemi sono già ben evidenti. Magari mostriamo le soluzioni.

  •  C’è spazio secondo te per lavori concettuali, oltre il reportage documentario?

In parte credo  di aver già risposto all’inizio della risposta precedente. Basta che quello che presentiamo sia coerente con il messaggio che decidiamo di comunicare, ma  a mio avviso il mondo di volontariato è fatto di persone, e spesso la trasposizione concettuale di accadimenti umani rischia la pretestuosità. Se l’autore è bravo, e ci fa vedere le cose in maniera diversa, ben venga. E’ sufficiente che riesca a toccare le corde del cuore. Nel mondo del volontariato c’è tanta fatica e pochi onori, c’è il sapersi donare, dedicare la cosa più preziosa che ha l’uomo, il tempo della propria vita, al servizio degli altri. Penso che sia un argomento abbastanza importate da raccontare senza fronzoli  per ottenere un buon lavoro.

Però magari sarebbe noiosa una mostra nazionale solo di reportage documentaristico!

  •  Immaginiamo di essere in un vostro workshop, quali consigli ti sentiresti di dare ai nostri lettori?

Intanto conoscere e cercare di capire. Non possiamo raccontare quello che non si è capito. Entrare in punta di piedi, non essere mai invadenti, magari rendersi conto della situazione prima di iniziare a fotografare. Non facciamo la figura dell’elefante con il prurito ad una zampa  in un negozio di cristalleria!

Prendiamoci del tempo, non si può fare un mordi e fuggi. Una volta che siamo entrati in sintonia con la situazione, facciamoci un’idea di come vogliamo sviluppare il nostro racconto, quali sono le situazioni importanti dell’attività dell’associazione che ci ospita, e troviamo il modo di rappresentarle, sempre pronti tuttavia a cogliere quell’immagine che può emergere improvvisamente davanti ai nostri occhi.

Dopo un po’ che frequentiamo un ambiente, accade una cosa fantastica: diventiamo invisibili, si diventa uno di loro, le persone non fanno più caso a noi, al pari di una spillatrice o un mobile.  Cadono le separazioni,  i rapporti diventano veri, i sentimenti affiorano e noi possiamo cercare di avvicinarci al cuore della situazione.

Essere semplici; il che non vuol dire sprovveduti, la fotografia  come abbiamo detto ha la sua grammatica e sintassi. Anzi può capitare che  una apparente semplicità nasconde notevoli difficoltà realizzative.  Cerchiamo di non cadere nella trappola di cercare di nascondere una povertà di messaggio dietro mirabolanti soluzioni tecniche.

Ricordarsi SEMPRE che quello che abbiamo di fronte è un  UOMO (razza umana), e non un semplice soggetto fotografico.  Non lediamo  mai con le nostre foto la sua dignità.

Dimostriamoci sempre gentili e sorridenti, ma guai a fingere: certe persone sono molto più vere e istintive di noi, e capiscono in maniera immediata se si possono o no fidare di chi hanno innanzi. Una volta persa credibilità, è quasi impossibile riconquistarla.

Stiamo  vicino, in mezzo,  alle situazioni, in modo di coinvolgere lo spettatore con le nostre immagini (banditi i teleobiettivi, il mio ha una lunghezza di 50 mm).

  •  E’ questo il mondo possibile?

Sono ottimista, sì.

Tuttavia non siamo in una bella situazione: per concedere a tutti gli abitanti del pianeta il tenore di vita che teniamo noi paesi sviluppati lessi una volta che avremmo bisogno delle risorse di sette pianeti terra. C’è qualcosa che non va. Dobbiamo fare un  bell’esame di coscienza, tutti. Per concludere citerei ancora una frase di Albert Einstein, che poi appare sulla home del nostro sito:

“Non esistono grandi scoperte né reale progresso finché sulla terra esiste un bambino infelice”

Dobbiamo fare ancora tanto strada, ma il mondo del volontariato, soprattutto quello in ambito sociale, porta avanti un percorso che difficilmente qualsiasi organismo statale potrà fare. In mezzo a tante difficoltà finanziarie, spazi, supporti, possibilità di comunicazione,  il mondo del volontariato ha il più grande propulsore esistente, l’amore per quello che si fa di propria spontanea volontà.

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. Massimo Pascutti says:

    Tanti per Tutti non finisce mai di stupirci…oggi veniamo a conoscenza di un gruppo di amici, come ama definire la sua associazione Gabriele Caproni, che si occupa di documentare fotograficamente la vita delle associazioni di volontariato che si occupano dell’assistenza sociale. E’ ancora un’aspetto inesplorato che ci offre molti spunti di riflessione…il volontariato per documentare il volontariato è sicuramente un’idea ricca di umanità ,che permette a molte più persone di venire a conoscenza di realtà che sarebbero altrimenti scarsamente visibili. Ma l’Associazione Italiana di Fotografia Sociale non si limita solo a documentare e a diffondere il lavoro oscuro di molte persone, ci mostra anche delle immagini di bellezza, di gioia e di solidarietà che fanno bene al cuore.
    Grazie.

  2. Andrea Angelini says:

    Bravo Attilio e sopratutto bravo Gabriele. Una intervista che descrive in modo perfetto di come deve essere il nostro approccio con il progetto Tanti per Tutti. Credo che l’esperienza di Gabriele sia un bene prezioso per tutti noi. Ho iniziato da poco ad entrare nel mondo del volontariato per il progetto TpT e mi ritrovo perfettamente in tutti i consigli e le esperienze descritte da Gabriele. Grazie!

  3. Michela Mazzoli says:

    Grazie per questo articolo, veramente utile in questo momento di riflessione … Ora che sono nel momento precedente agli scatti. Ne farò tesoro

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