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Daniele Cinciripini: “Ha solo me”

4 commenti
Daniele Cinciripini: “Ha solo me”

Oggi è la volta di Daniele Cinciripini, un altro dei dieci Testimonial SAMSUNG di Tanti per Tutti con il quale abbiamo fatto una lunga chiacchierata…

Attilio Lauria

  • Daniele è un tema stimolante quello del volontariato, come lo hai affrontato?

Normalmente si penserebbe di sviluppare un progetto fotografico sul volontariato attraverso un reportage cercando di documentare l’azione d’aiuto; la FIAF, scegliendo me, ha scelto consapevolmente un fotografo che non fa fotografia di reportage. Questo mi ha felicemente colpito e coinvolto con particolare entusiasmo. Ho un approccio lento di ricerca fotografica, cerco sempre di realizzare opere che permettano al fruitore di andare oltre le apparenze, è una sfida continua. Inoltre credo che l’esperienza di Tanti per Tutti per me potrà essere un’ottima occasione per mettermi in gioco sia concettualmente, dato il tema complesso e delicato, che tecnicamente con i mezzi fornitici dalla Samsung.

  •  Quale associazione hai scelto e con quale criterio?

Ho contattato una onlus che si chiama “On The Road”, un’associazione di volontariato molto importante ed attiva nel mio territorio, con cui nel passato avevo già collaborato, composta da circa cinquanta persone che lavorano per garantire inclusione sociale e assistenza a persone vittime della tratta degli esseri umani, ma anche a rifugiati e richiedenti asilo, donne vittime di violenza domestica, persone senza dimora. Vista la particolare e delicata attività che svolgono in questa onlus, ho deciso di realizzare il mio progetto fotografico concentrandomi sui volontari. Quello che fin da subito mi ha interessato è stato cercare di comprendere e mostrare la vita e le varie identità personali di questi professionisti. Ho parlato con tutto lo staff, ho spiegato la mia idea e la necessità di realizzare un follow up su ognuno dei volontari che avrebbe acconsentito a far parte del progetto.

 

 

  • Cos’è un follow up, e in che modo hai applicato questo metodo in  TpT?

Il follow up è un metodo di ricerca antropologico/psicologico e, nel mio caso, fotografico, che consiste nell’azzerare la distanza col soggetto e letteralmente seguirlo in tutti gli ambienti e situazioni di cui è fatta la sua giornata, dalla più comune alla più privata. Ovviamente è un metodo destabilizzante sia per me che per il soggetto. Seguire qualcuno non significa fotografarlo, significa conoscerlo, fare un patto di apertura totale con l’altro e fiducia reciproca; fotografare l’altro è qualcosa che avviene in un secondo momento, consapevolmente. Ci tengo molto a sottolineare che è la prima volta che decido di lavorare così, sto sperimentando molto, e questi primi risultati sono da considerarsi un prototipo, sia in termini di metodo che di risultato.

  • Dicevi che non sei un reportagista, in che modo si può raccontare senza fare reportage?

Non faccio reportage e non entro nel vivo dell’azione di volontariato a documentarla, cosa oltretutto impraticabile con un’associazione come “On The Road”, i cui utenti hanno assoluto bisogno di protezione e riservatezza. La fotografia è un medium straorinario che mi costringe ogni volta a cercare il percorso ed il metodo più adatti per conoscere e raccontare una determinata realtà. Questa volta ho scelto di seguire alcune delle volontarie che prestano servizio per “On The Road” sia nella loro dimensione lavorativa, che in quella privata, per comprendere e raccontare la quotidianità e le identità che ognuna di loro assume. Intendo provare a testimoniare la complessità dell’esistenza di ognuno di questi operatori che alternano vita privata a volontariato, studio, amicizie, amori e spesso un secondo lavoro; credo che ognuna di queste sfaccettature spieghino bene sia l’essenza del volontariato, che l’esistenza del volontario.

  •  Hai scelto la forma diario per comunicare la tua esperienza a contatto con questi volontari: ogni volontario una storia, ed un diverso capitolo del diario, dove si alternano fotografia e scrittura intime. Quali sono le ragioni di questa scelta narrativa?

Inizialmente pensavo che dal follow up avrei realizzato un ritratto per ogni diversa situazione in cui il volontario si sarebbe trovato. Poi l’esperienza e la ricerca sul campo mi hanno fatto comprendere che la strada giusta era un’altra, non bastava ritrarli nelle diverse dimensioni e situazioni di vita, e non bastava nemmeno affiancare ai ritratti delle fotografie dell’ambiente in cui la loro vita si svolgeva. Sentivo che dovevo andare oltre quel confine che avevo inizialmente stabilito, e così ho deciso di condividere e di mettere in opera nel lavoro finale quelli che normalmente rimangono i miei appunti personali e privati. Ho creduto che stavolta fossero parte integrante della ricerca fotografica, immagini e testi insieme, nella dimensione di un diario personale: ho raccontato di me per raccogliere le diverse identità di ognuna di loro, raccontando indirettamente le storie degli utenti e cercando, in questo modo, l’unico possibile per me, una via per restituire la complessità in cui la vita del volontario è immersa.

  • Nella prima delle storie, “Ha solo me”, ti sei trovato di fronte ad un evento tragico, che sicuramente avrà cambiato la tua prospettiva: dal racconto dell’opera del volontario, in questo caso di Vincenza, a quella dell’assistito, Doichyn, un bulgaro vittima di tratta, ex schiavo e clochard. Come ti sei posto “davanti al dolore degli altri”?

La morte di Doichyn mi ha spiazzato, shoccato, addolorato e allo stesso tempo ha risvegliato in me quel “certo calore”, quella consapevolezza, che per chi fa fotografia è familiare, di essere davanti ad un evento eccezionale da raccontare. Ho voluto essere onesto e condividere il mio percorso intimo, che è sia umano che fotografico, per far capire quali sono stati i problemi e la soluzione che ho deciso di operare davanti ad una situazione così complessa. C’è un limite etico o morale al poter fotografare in una qualunque situazione tragica sia essa riguardante uno solo o molti esseri umani? Fotografare il dolore è lecito solo per chi fa cronaca? Questi sono alcuni degli interrogativi che mi hanno smosso nel profondo, mi hanno fermato e fatto riflettere. Gli interrogativi etici s’intrecciavano a quel certo calore, di poter raccontare qualcosa di forte, un dolore comune a molti e normalmente sommerso perché privato e senza alcun appeal di cronaca. Descriverlo? come farlo? quando e come? Ho scelto di fotografare ma non ho solo fotografato. Prima ho scelto di dire una preghiera nell’intimità camera ardente e poi di rendere omaggio a Doichyn meglio che potevo; ho deciso di fotografare un momento della funzione religiosa al cimitero. Sotto il cielo di una splendida giornata ventosa si è svolto l’ultimo saluto a Doichyn, intorno alla bara c’erano solo le ragazze di “On the Road” (è merito loro se la funzione ha avuto luogo), la sua bara silente ed anonima ci ricorda che siamo soli, e che lui lo era più di altri.

Grazie Daniele!

Tutte le immagini © Daniele Cinciripini

Daniele Cinciripini ha usato una SAMSUNG NX 500

  1. Massimo Pascutti says:

    Il lavoro di Daniele Cinciripini , sicuramente uno dei più innovativi e coinvolgenti apparsi fino ad ora sulle pagine di TpT,ha il grande pregio di essere semplice, essenziale e allo stesso tempo toccante. La forma espressiva e grafica scelta per la presentazione ci coinvolge intimamente, mettendoci a conoscenza degli appunti dell’autore che riguardano l’attività della volontaria Vincenza; in questo modo testo e immagini si rafforzano a vicenda e ci proiettano nella drammaticità della situazione e nel coraggio di portare avanti questa battaglia di solidarietà. Grazie all’autore per averci dato un lavoro così bello.

  2. Andrea Angelini says:

    Sono d’accordo con Massimo. Il portfolio che ci presenta Daniele, come spesso accade con i suoi lavori, è estremamente coinvolgente pieno di preziosa umanità.
    Un diario intimistico che racconta le sensazioni emerse durante il suo partecipare alla vita dei volontari della associazione “On the Road”. Un tempo spirituale interiore condiviso con i volontari che Daniele conosce durante il suo viaggio diventando loro compagno di memoria.
    Una esperienza vissuta profondamente che emerge con tutta la sua forza e sincerità attraverso le fotografie che Daniele ci ha donato. La preghiera di Daniele si percepisce nello spazio di quel cimitero troppo vuoto per poter raccontare, anche solo in minima parte, la vita spezzata di Doichyn.

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