“Giochi di strada”, di Laura Aggio Caldon
“Giochi di strada” è un lavoro realizzato nel quartiere Archi di Reggio Calabria, oltre 9 mila abitanti, periferia nord di Reggio Calabria, etichettato come “malavitoso”; chi nasce qui viene segnato come prodotto di una società corrotta e violenta. Nel quartiere c’è il Centro di solidarietà “Mons. Italo Calabrò”, gestito dalle suore Francescane Alcantarine, la cui opera quotidiana è stata documentata da Laura Aggio Caldon.
Attilio Lauria
Aperto vent’anni fa, in team con le tre parrocchie di Archi, il Centro promuove l’animazione di strada, con circa 20 operatori: giochi e sostegno scolastico, teatro e formazione, gite e laboratori, calcio e basket, giornate ecologiche, fino ad “Archi-estate”. In alternativa alla povertà culturale, propone ai minori percorsi di crescita che li sottraggano agli esempi devianti della strada e a destini distruttivi. Il Centro è anche presidio di accoglienza, con mensa, docce, distribuzione della spesa, vestiario.
Laura Aggio Caldon è nata in provincia di Milano nel 1983. Ha studiato fotografia all’ISFCI di Roma, dove ha terminato gli studi con un master nel 2013.
- Cos’è che ti ha spinto ad interessarti del volontariato?
Ho deciso di presentarmi per partecipare alla campagna sociale “chiedilo a loro” in modo da avere la possibilità di conoscere un ambiente per me nuovo. Avvicinarmi ad una realtà difficile e sempre più stereotipata dai media. Avevo il desiderio di andare oltre lo stereotipo, vedere l’uomo e la donna che vivono ciò che ormai siamo abituati a leggere sui giornali e a cui non facciamo più caso perché ogni storia si assomiglia.
- Per evitare il rischio di una rappresentazione retorica o semplicemente celebrativa è necessario approfondire la conoscenza del mondo del volontariato: come ti sei preparato all’approccio con questa realtà?
Ho letto e studiato, come cerco di fare ogni qualvolta affronto un lavoro. Ho cercato notizie sui luoghi, prima sulla città di Reggio Calabria (dati statistici su disoccupazione, criminalità, ecc.) cercando anche tra le informazioni più recenti di cronaca locale. Poi ho ristretto la mia ricerca al quartiere in cui operano le Suore Francescane Alcantarine, quartiere Archi. Infine ho cercato di capire che tipo di lavoro svolgessero le suore, se fosse un impegno diretto o meno, se fossero bene inserite nel tessuto sociale della città e quale fosse il loro impegno quotidiano per la comunità. Tutto ciò che mi potesse aiutare a non essere un estranea in quella che per me era comunque una nuova realtà.
- Altre qualità necessarie immagino siano empatia e rispetto per i soggetti fotografati
Credo sia impossibile volersi avvicinare al dolore altrui senza portarvi rispetto. Cercare di capire chi abbiamo di fronte e lasciare che anche il nostro soggetto ci possa conoscere, in modo da instaurare un legame di fiducia e rispetto. Questo per me è l’unico modo per creare un immagine che abbia la forza e il carattere di chi ci ha permesso di “raccontarlo”.
- Si riesce ad essere testimoni neutrali nel realizzare un reportage di questa natura, o si rappresenta comunque il proprio punto di vista?
La neutralità non credo esista in questo lavoro. Ognuno si crea una sua opinione e più saranno intime le foto più il fotografo sarà coinvolto. Con questo non voglio dire che ci sia solo un punto di vista, ma che fortunatamente le fotografie sono fatte da essere umani che spesso sbagliano ma che altrettanto spesso riescono a cogliere sfumature impercettibili per chi non si sente coinvolto personalmente.
- Di questa esperienza umana ancor più che fotografica ti è rimasta impressa qualche storia in particolare?
Molte sono le storie, intense e tristi che mi hanno colpita, ma vorrei condividere la storia più positiva che mi è rimasta impressa. Il piccolo convento ospita un ristretto numero di Suore Francescane. Una in particolare, suor Lisa, è molto giovane e quasi ogni giorno passa di casa in casa a chiamare i bambini, che spesso rimangono da soli, per organizzare con loro partite di basket, caccie al tesoro e visite al mare. I bambini adorano il modo forte e dolce con cui Suor Lisa affronta ogni giornata ed è visibile da come la prendano ad esempio, da come le chiedono consigli e aiuti con i compiti di scuola, da come sorridono scendendo le scale trovandola al portone che li aspetta.
- Dal punto di vista del linguaggio fotografico diversi lavori ricorrono ad una grammatica fatta ad esempio di luci e ombre incise per dare forza alla rappresentazione, o all’esasperazione drammatizzante dei contrasti, cosa ne pensi?
Il linguaggio fotografico è appunto un linguaggio che si ispira ad altre forme di arti visive, dalla pittura alla cinematografia. Spesso per raccontare alcune realtà si cerca di enfatizzare la storia utilizzando una forma di linguaggio consueta per trasmettere nell’osservatore tristezza e persino angoscia. Io provo a non farlo, ma più per rispetto del soggetto che fotografo piuttosto che per una scelta stilistica. Ho deciso di affrontare questo racconto dando risalto alle persone che mi hanno permesso di far parte delle loro piccole o grandi difficoltà, per cui enfatizzare il dolore a discapito del carattere del mio soggetto lo reputo non rispettoso e veritiero. Inoltre credo che si decida di utilizzare un determinato linguaggio perché si ha in mente un concetto stereotipato e si vuole a tutti i costi riprodurlo, io ho cercato di non portare con me alcun pregiudizio, ne positivo ne negativo.
- C’è spazio secondo te per lavori concettuali, oltre il reportage documentario?
Assolutamente si. Far riflettere su tematiche di natura umana e sociale è lo scopo principale di un lavoro fotografico come questo. Non importa quale scelta “linguistica” si adoperi, ma il risultato e il numero di persone che è possibile raggiungere. Se in molti conosceranno la storia da noi raccontata avremmo raggiunto lo scopo sia che lo faremo mostrando direttamente ciò che vogliamo rappresentare sia che utilizzeremo un modo concettuale per raccontarlo.
- Immaginiamo di essere in un tuo workshop, quali consigli ti sentiresti di dare ai nostri lettori?
Non ho consigli da dare, ma posso raccontare che spesso mi sono trovata ad aver timore di essere invadente, di oltrepassare un limite nel fotografare momenti intimi e così mi facevo da parte. Adesso, con un pochino di esperienza in più, ho capito che bisogna essere sinceri e confessare persino quel momento di imbarazzo alle persone che vogliamo ritrarre, una volta che non ci saranno cose non dette tra noi e il nostro soggetto, il fotografo diventerà finalmente invisibile e in grado di raccontare ciò che vede e sente.
- È questo il mondo possibile?
Un mondo dove le persone soffrono e trovano conforto in un pranzo alla mensa, oppure in una doccia calda e in qualche parola di conforto da una donna, da una suora, che ha deciso di dedicare la propria vita ad aiutarle? Purtroppo ancora non è così ovunque, purtroppo non in tutto il mondo c’è qualcuno disposto a esserti vicino quando ne hai bisogno. Purtroppo non è una realtà assoluta però, continuando a raccontarla e a mostrarne le varie sfumature, forse potrà essere possibile.
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“Giochi di strada” di Laura Aggio Caldon è uno di quei lavori che ti restano impressi per la loro leggerezza e per la capacità di raccontare situazioni che , rapportate alla realtà del territorio, sono straordinarie,ma in modo da farle apparire al contrario ordinarie. Qual’è il segreto per trasformare lo straordinario in ordinario? L’umiltà, la forza , il coraggio, la determinazione…il risultato è un lavoro in cui non appaiono più sconforto, tristezza, solitudine, ma sorrisi, speranza e condivisione. Grazie a Laura per questo bellissimo lavoro.
e grazie anche a te, Massimo, per aver sottolineato il senso della proposta del lavoro di Laura Caldon