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Il paradosso della fotografia documentaria

5 commenti
Il paradosso della fotografia documentaria

Per quanto possa sembrare quasi un controsenso, proprio la fotografia documentaria, la pretesa vestale della “verità”, è in realtà quella più soggetta ad un uso manipolativo-ideologico: prendete ad esempio l’esperienza dell’FSA, la Farm Security Administration, nata in seno al Dipartimento dell’Agricoltura americano nel ’35, proprio quella con la quale è nato il termine di fotografia documentaria.

Attilio Lauria

Ebbene, lo scopo di questa agenzia diretta da Roy Stryker, che annoverava tra le sue file Autori come Dorothea Lange e Walker Evans, era quello di convincere gli americani della necessità della politica roosveltiana di aiuti economici ai disperati della grande depressione, quelli partiti nuovamente verso il lontano west in cerca di fortuna. Ecco allora il documentarismo compassionevole delle madri migranti della Lange in cerca di empatia, cui si oppone la lezione quasi asettica di Walker Evans, che smette di enfatizzare il dramma sociale.

Cosa c’entra tutto ciò con il nostro progetto? Siamo di fronte a due diverse declinazioni di una medesima tematica – quella drammatizzante della Lange, e l’anonimato stilistico di Evans fatto di visioni frontali, di serialità, e di quello che appare come una sorta di automatismo procedurale -, che sono espressione di altrettante poetiche, ovvero, di un’intenzione. Senza intenzione, senza la consapevole assunzione di una poetica, i nostri lavori corrono il rischio di essere solo delle opere ostensive, lavori cioè che mostrano senza narrare. Dunque, dopo il “cosa”, la tematica di cui occuparci, la nostra decisione più importante riguarda il “come” raccontarla, trovare cioè una chiave narrativa che possa aiutarci a comprendere al di la della superficie delle immagini. Si dice che la fotografia spieghi, ma in realtà non fa che constatare, ed per questo che c’è bisogno di parole: ecco la necessità della didascalia, di cui ci occuperemo nel prossimo post, senza dimenticare la dimensione etica.

Intanto, un’illuminante citazione da Susan Sontag a proposito dell’ideologia sottesa alle immagini dell’FSA, che può funzionare da avvertenza sulla tentazione di realizzare immagini preconcette: “Verso la fine degli anni 30 i membri del progetto fotografico FSA scattavano decine di immagini di ogni mezzadro finché non erano convinti di aver fermato sulla pellicola esattamente ciò che volevano, ossia quella precisa espressione visiva del soggetto che confermasse le loro idee sulla miseria, sulla dignità e sullo sfruttamento .”

 

  1. Considerazioni molto interessanti.
    Credo che la citazione della Susan Sontag riprenda quanto Dorothea Lange affermò nel 1929:
    “sapere in anticipo che cosa stai cercando significa che stai solo fotografando i tuoi preconcetti, cosa che è molto limitante”. Secondo lei era bene che un fotografo lavorasse “completamente senza pianificazione” e che fotografasse solo “ciò che istintivamente gli procurava una emozione”. E’ anche per queste ragioni che W.Evans non amava molto il progetto di R.Stryker e lasciò anticipatamente l’agenzia FSA.

  2. Attilio Lauria says:

    Hai ragione Vincenzo, la Sontag riprende proprio quella dichiarazione della Lange con lo scopo di sottolinearne la diverse contraddizioni: intanto con la pratica, ovvero si predica bene (fotografare senza avere idee preconcette) ma si razzola male (in realtà la Lange fotografa cercando l’adesione emotiva del fruitore delle immagini, cosa che mette in secondo ordine la comprensione del fenomeno, e quindi una certa funzione della fotografia). L’altra contraddizione è che comunque, occorre avere chiaro il motivo per il quale si sta fotografando: l’idea di lasciarsi guidare dalle emozioni è molto romantica, persino affascinante, ma quando si fotografa per se stessi… In realtà, come ricordi tu stesso con la vicenda di Evans, la Lange sapeva molto bene quello che faceva!

  3. isabella tholozan says:

    Entrando nel merito del nostro progetto credo sia fondamentale, proprio per non incespicare nelle contraddizioni sopra descritte, scegliere realtà conosciute.
    La conoscenza ci porta ad avere, prima ancora di fotografare, un consapevole rapporto empatico con la realtà che desideriamo raccontare.
    Ma, come sappiamo, raccontare non basta!

  4. Attilio Lauria says:

    Vero Isabella, come dice Silvano, e come sappiamo, raccontare non basta, ci sono alcune altre scelte precedenti lo scatto, delle quali abbiamo parlato nei post precedenti. Grazie per averlo ricordato, è un invito a chi ci legge ad andare a ritroso nella ricerca dei post pubblicati sul blog 🙂

  5. Andrea Angelini says:

    Grazie Attilio, come sempre i tuoi Post ci aiutano a trovare il filo della matassa per arrivare alla realizzazione dei progetto che vogliamo portare avanti. Il territorio italiano che conosciamo meglio è quello vicino a casa. La nostra ricerca deve assolutamente partire da quelle associazioni e volontari che vivono nella nostra comunità e che ogni giorni non riconosciamo perché troppo assorti a fare qualcosa per noi. Il testo introduttivo ad un progetto come questo credo sia essenziale e necessario per poter contestualizzare le immagini che presentiamo. Come emerso a Bibbiena credo che ogni lavoro di Tanti per Tutti venga fatto prima di tutti per noi e per quella che sarà la mostra locale e poi ovviamente anche per la mostra nazionale di Bibbiena. La finalità è anche quella di dare il giusto riconoscimento alle persone che aiutano nel nostro territorio. Di mostrare che non ci sono solo notizie brutte da mettere sui giornali. La nostra società è fatta anche di tante bellissime realtà nascoste che rischiano di andare verso l’oblio. A noi spetta rendere loro memoria. Che bello condividere con tutte le associazioni che incontriamo la nostra mostra locale. In merito al modo di presentare un portfolio, credo che è anch’esso fondamentale per dare la giusta narrazione alle immagini e per poter collocare il nostro lavoro nel progetto nazionale e locale. Ci sono tantissime modalità di progettare ogni lavoro. Resta a noi capire quale sia il migliore per rappresentare il nostro soggetto principale e per non cadere nel rischio sempre presente del virtuosismo. Credo che ci riusciremo e quello che verrà fuori dai lavori saranno i VOLONTARI.

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