“Il progetto proposto è la realizzazione di un documento fotografico”: cosa s’intende per fotografia documentaria?
Oltre che per la Tavola rotonda, il FotoConfronti di Bibbiena è stata anche l’occasione per un seminario di approfondimento, dal titolo “Il progetto Tanti per Tutti e le declinazioni del reportage sociale”, del quale tenterò una breve sintesi.
Attilio Lauria
Partendo dall’assunto che ogni grande progetto Fiaf ha una duplice dimensione, quella specificamente tematica, e una “laboratoriale”, che riguarda cioè la dimensione linguistica della declinazione, il seminario si è occupato di quest’ultima, con l’obiettivo di creare consapevolezza sulle problematiche che storicamente hanno caratterizzato la fotografia documentaria, dal rapporto realtà/verità, all’estetizzazione, alla ricorrenza di stereotipi visivi, all’etica, all’importanza della didascalia.
Partendo dagli obiettivi del nostro progetto, che prevedono “la realizzazione di un documento fotografico”, si è discusso innanzitutto di cosa s’intenda per documento fotografico, quale differenza ci sia tra il sostantivo documento e la sua aggettivizzazione, e quindi tra fotografia documentaria e reportage sociale, alla luce di alcuni lavori contemporanei già considerati “miliari” (Nick Waplington, Rip Hopkins, Zweletu Mthethwa, Paul Graham, ecc.).
La necessità di definire cosa s’intenda per documento nasce da un sentimento molto diffuso, che vuole la fotografia documentaria come una sorta di “figlia di un Dio minore”, estranea cioè alla possibilità di esprimere una visione personale, e dunque confinata in un limbo estetico. Al contrario, la fotografia documentaria, rispetto alla quale non a caso si usa – sin da Walker Evans – la definizione di “stile documentario”, contempla sia la messa in forma, che l’uso manipolativo-ideologico. Come dire che il documentario non è poi così innocuo e neutrale come lascerebbe immaginare la denominazione…
Walker Evans, “Bud Fields e la sua famiglia”, Alabama, 1935 o 1936
D’altra parte, proprio una delle prime immagini della storia, l’ “Autoritratto da annegato” del 1840 di Hippolyte Bayard, dimostra come non esista un “grado zero” della fotografia, che è da subito scrittura, oltre che iscrizione, passando cioè rapidamente dalla descrizione, alla narrazione o storytelling, come si usa definirla oggi.
Hippolyte Bayard, “Autoritratto da annegato”, 1840
Dunque una prima conclusione alla quale siamo giunti attraverso alcuni esempi, e ripercorrendo 100 anni di storia, dalla fotografia a di Lewis Hine del 1905, a quella di Jean-louis Schoellkopf del 2001 – all’apparenza un paradosso -, è che a definire una foto sono gli usi e i contesti di fruizione, oltre che la sua collocazione teorica, che fa della fotografia documentaria soprattutto un oggetto teorico speculativo.
Lewis Hine, “Ragazza in un cotonificio della Carolina”, 1908
Jean-louis Schoellkopf, “La Fabbrica Andresset”, Louviers, 2001
Appuntamento ai prossimi post per altri argomenti del seminario…
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L’interessantissimo articolo di Attilio Lauria, e non vedo l’ora di leggere i successivi, ci introduce al grande dilemma della veridicità dell’immagine fotografica e in particolare di quella documentaria: e la conclusione è che naturalmente la fotografia non potrà mai essere la rappresentazione fedele della realtà, ma sarà sempre necessariamente filtrata dall’interpretazione personale ed emotiva e quindi lascia spazio per tale ragione,e qui sta la grandezza della fotografia, alla coloritura artistica.
Determinante credo sia l’onestà fotgrafica, la valenza etica dell’autore al momento dello scatto; la capacità di scegliere liberamente, riuscendo a trasformarsi in filtro tale da poter produrre immagini che possano essere condivise, universalmente comprese e senza tempo.
Un documentario fotografico poco onesto avrà vita breve e poca gloria, indipendentemente dalle qualità tecniche.
…e infatti in un prossimo post riporterò la parte del seminario di Bibbiena dedicato all’etica della fotografia 🙂