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“La Madre”, di Emanuele Donazza

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“La Madre”, di Emanuele Donazza

Pubblichiamo oggi l’ultima della serie di interviste realizzate nel lungo periodo di accompagnamento alla realizzazione dei lavori; parliamo con Emanuele Donazza, che ha realizzato un lavoro sui volontari della casa accoglienza per giovani madri in difficoltà “La Madre”,  di Trieste.

Attilio Lauria

  • Cos’è che ti ha spinto ad interessarti del volontariato?

Il fatto che all’epoca non lo avevo ancora vissuto in prima persona. Ho sempre avuto stima di chi fa del volontariato, poi nel 2013 mi è stata offerta la possibilità di fare un reportage per la campagna dell’8×1000 indetta dalla CEI. Ho visitato numerose opere Caritas nella città di Trieste,  dove l’apporto dei volontari è fondamentale.

  •  Per evitare il rischio di una rappresentazione retorica o semplicemente celebrativa è necessario approfondire la conoscenza del mondo del volontariato: come ti sei preparato all’approccio con questa realtà?

Ho cercato tutte le informazioni che potevano essermi utili nel quadro generale, provando ad immaginare dove avrei potuto insistere maggiormente. Una volta sul posto, mi sono lasciato guidare dagli incontri, le casualità. Mi sono fatto coinvolgere quanto più possibile nel poco tempo a disposizione

  •  Altre qualità necessarie immagino siano empatia e rispetto per i soggetti fotografati

 Senza dubbio. L’empatia in particolare è già di per sé una forma di rispetto istintiva: io sento insieme a te e lo faccio perché ti considero, perché esisti e a me importa. Questo è fondamentale se si vuole raccontare. Essere disposti a conoscere e condividere è l’unica vera chiave d’entrata di ogni storia.

  •  Si riesce ad essere testimoni neutrali nel realizzare un reportage di questa natura, o si rappresenta comunque il proprio punto di vista?

A mio avviso la neutralità non esiste, ognuno è portatore di idee e sensibilità costruite nel tempo e con le esperienze. Ma è un’opinione personale. D’altra parte se volessi rimanere neutrale, non scatterei alcuna foto. Per me è più importante l’onestà, e bisogna lavorare duro per poter dire di averne una.

  •  Di questa esperienza umana ancor più che fotografica ti è rimasta impressa qualche storia in particolare?

 Quella dei ragazzi afgani. Li ho incontrati appena arrivato a Trieste, erano molto giovani e mi ha sorpreso trovarli lì. Abbiamo parlato del loro viaggio, lunghissimo e coraggioso, delle loro speranze e dei loro sogni davanti ad una tazza di tè, come vecchi amici. Ci conoscevamo da non più di dieci minuti. Oggi spero che siano dove volevano arrivare.

  •  Dal punto di vista del linguaggio fotografico diversi lavori ricorrono ad una grammatica fatta ad esempio di luci e ombre incise per dare forza alla rappresentazione, o all’esasperazione drammatizzante dei contrasti, cosa ne pensi?

Di solito guardo un lavoro nel suo complesso e lo valuto nella sua interezza. Così come quando chiudo un libro, cerco di capire quello che mi sta lasciando. Le grammatiche che usa mi interessano di meno, la forza di un lavoro per me non proviene da lì.

  •  C’è spazio secondo te per lavori concettuali, oltre il reportage documentario?

Assolutamente sì. Anzi mi sembra che gli uni possano sposarsi con gli altri, e ormai è pieno di esempi simili. D’altra parte le ibridazioni, la ricerca e le sperimentazioni sono connaturate all’idea stessa di linguaggio, seguono l’evoluzione del pensiero. Credo che oggi sia poco utile oltre che poco stimolante scrivere, fare musica o cinema come cinquant’anni fa. Non vedo perché non debba essere lo stesso per la fotografia.

  •  Immaginiamo di essere in un tuo workshop, quali consigli ti sentiresti di dare ai nostri lettori?

Di prendersi tutto il tempo che gli occorre per fotografare le cose che veramente gli stanno a cuore, senza dar retta ad altro. Di leggere e di pensare, parlare, ascoltare e fare l’amore. Di appassionarsi, di credere e volere fortemente.  Di non perdere mai la capacità di meravigliarsi. Di imparare dai propri figli. La fotografia è un processo lento e si nutre di tutte queste cose, non di altro.

  •  È questo il mondo possibile?

Sì, è uno dei mondi possibili. Ma ce ne sono altri in cui occorre sperare.

 

Emanuele Donazza sviluppa da qualche anno progetti fotografici di interesse sociale e documentario. Dopo una formazione accademica giornalistica, si è specializzato nel linguaggio fotografico, perfezionando la proprie conoscenze presso Collettivo WSP, Scuola Romana di Fotografia, e attualmente Luz Academy. Ad oggi si occupa di lavori legati al rapporto tra territorio e identità.

 

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