Tu chiamale, se vuoi, citazioni…
Prima di occuparci di etica, occorre dare conto di un’altra forma di estetizzazione, oltre quella di cui ci siamo occupati in uno degli ultimi post che sintetizzavano il seminario di Bibbiena, ovvero, della cosiddetta “arte della memoria”.
Attilio Lauria
Tutti noi sappiamo bene che tutto il fotografabile è stato già fotografato, ma spesso questa evidenza viene usata come premessa per un corollario decisamente interessato, quasi un alibi, e cioè che tutto il fotografabile è stato anche fotografato in tutti i modi possibili.
La declinazione di questo corollario prende appunto il nome di “arte della memoria”, espressione con la quale ci si riferisce ai rimandi che talune immagini hanno all’iconografia della storia dell’arte che, in quanto archetipo culturale, è un patrimonio della nostra memoria al quale attingere. Uno dei primi esempi in questo senso è quello citato da Susan Sontag dell’immagine del corpo di Che Guevara, paragonato a due dipinti di Mantegna e a Rembrandt.
Andrea Mantegna, Cristo morto 1475/1478 ca.
Rembrandt, “Lezione di anatomia del dottor Tulp”, 1632
Secondo Anne Tronche, la critica d’arte scomparsa lo scorso 19 ottobre, “ciò che definisce la nostra modernità più recente è spesso un’immagine che sostiene di essere l’immagine di un’immagine“, espressione che ricorda molto da vicino la concettualità della citazione e della riflessione alla quale ricorre molta della produzione fotografica contemporanea rispetto ad un immaginario precedente.
E anche il reportage sociale non appare esente dalla pratica di quest’arte; tra i numerosi esempi, si possono citare alcune immagini della serie “Interiors” di Zwelethu Mthethwa, o di “The Places We Live” di Jonas Bendiksen, che già dal titolo richiama quel “How the other half lives” di Jacob Riis, dove i “luoghi” sono appunto quelli dove vive “l’altra metà”…
Zwelethu Mthethwa
Henri Matisse, “The Yellow Dress”, 1929-1932
La storia dell’arte offre dunque dei modelli di composizione “collaudati”, se possiamo usare questa espressione, modelli cioè già riconosciuti come arte e, in quanto tali, facilmente riconoscibili dai fruitori delle immagini, rendendo immediata la retorica comunicativa.
Da qui, piuttosto che la ricerca del momento o dell’azione significativa, la costruzione di quelle immagini che Vincent Lavoie – a partire dall’analisi storica del premio Pulitzer -, chiama “immagini monumento”, immagini cioè rese monumentali dai loro attributi simbolici che ne fanno delle icone (o delle clonazioni di icone…). Con una punta di ironia non troppo celata, nel caso del WordPress si parla poi delle “piangenti del WP”, genere inaugurato dai due clichè di Hocine e Georges Merillon, divenuti il “modello” di riferimento per eccellenza.
Hocine Zaourar, Algeria, foto vincitrice del WPP 1997, ribattezzata la “Madonna di Algeri”
Georges Merillon, Nogovac, foto vincitrice del WPP 1990, ribattezzata la “Madonna del Kosovo”
Enric Marti, 28 ottobre 1998, villaggio di Dragobil
William Eugene Smith, dalla serie “Villaggio spagnolo”, 1951
Ecco dunque l’altra tentazione che va sotto il nome di estetizzazione: la ricerca dell’effetto facile attraverso la riproposizione di modelli che appartengono alla storia delle immagini; anche in questo caso, come abbiamo già visto in un post precedente, la costruzione di un’icona estetica privilegia un linguaggio che enfatizza la compassione (o l’emotività) a discapito della comprensione.
Questa costruzione linguistica genera a sua volta un’ulteriore conseguenza, alla quale in questo contesto possiamo solo dare un breve cenno: dall’istantaneità, intesa come imperativo formale del reportage, ricerca cioè dell’azione o dell’attimo, si è passati alla solidificazione quasi scultorea di quell’attimo. Sintetizzata da un’efficace espressione di Poivert, si può dire che si è passati dall’icona del gesto, all’estetica della posa.
icona del gesto: Robert Capa, Miliziano colpito a morte, Cordova 1936
estetica della posa: Samuel Aranda, foto vincitrice del WPP 2012, ribattezzata la “Madonna di Sanaa”
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Interessantissime considerazioni quelle di Attilio Lauria,che ci portano a considerare quante interconnessioni esistano fra le numerose espressioni d’arte ; mi vengono in mente anche le immagini di Lachapelle che offrono numerosi rimandi cinematografici o le immagini di Mapplethorpe con i suoi nudi che richiamano alla mente le sculture neoclassiche.
Citare Giulio Rapetti e doverlo accostare alla pittura e fotografia del dolore fa un certo effetto, ma come sempre per le canzonette è solo una questione dell’età. Molto interessanti i rimandi visivi e storici dei legami tra il susseguirsi delle immagini, il già visto ed il già fatto è vero solo per chi ri-conosce, per gli altri è solamente anche se non voglio poi mi ritrovo a volare tra distese ardite e risalite. Oggi però grazie alla grande memoria virtuale dell’onnipotente google è carino far fare a lui gli accostamenti, con ricerca immagine partendo da una si ottengono significativi e insignificanti abbinamenti.