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“Ospedale Amico”, di Nanni Fontana

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“Ospedale Amico”, di Nanni Fontana

Nanni Fontana è uno dei 20 Autori, insieme a Pietro Masturzo, Chiara Diomede, Francesco Acerbis, Moria De Zen, Massimo Di Nonno, Alessandro Digaetano, Giuseppe Moccia, Luana Monte, Silvia Morara, Isabella Balena, Matteo Bastianelli, Cristiano Belloni, Alessandro Tosatto, Beatrice Mancini, Luca Nizzoli Toetti, Alfredo Bini, Michele Borzoni, Manolo Cinti e Stefano De Grandis, i cui reportage furono raccolti in “VolontariaMENTE”, mostra fotografica curata nel 2012 da Maurizio Garofalo in collaborazione con Chiara Oggioni Tiepolo, e dedicata all’anno europeo del volontariato e al 20° anniversario della legge quadro 266/91 sul volontariato in Italia, già ospitata sulla nostra newsletter.

Attilio Lauria

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Nato a Milano nel 1975, e laureato in Economia dei mercati finanziari internazionali presso l’Università Bocconi, Nanni Fontana ha deciso di cambiare percorso di vita, e diventare un fotoreporter; il lavoro che vi propongo, insieme ad un’intervista con l’Autore, è tratto da “Ospedale Amico”, un progetto pilota ideato da Imagine Onlus, e realizzato in collaborazione con il San Filippo Neri di Roma sulla scorta dell’esperienza europea dei “migranti-friendly hospitals“, finanziato in collaborazione con l’OMS, e realizzato in 12 ospedali di tutta Europa.

  • Cos’è che ti ha spinto a interessarti del volontariato?

Quando si parla di volontariato, mi viene sempre in mente il testo di una canzone che dice: “se chi fa il volontario ci guadagna un salario – ingrassa il suo amor proprio e il nostro obbrobrio – un volontario, senza eccesso di zelo, fa gratis quel che può e gli par zero”. Pensando alle persone che riempiono la mia vita, quelle cui sono legato o quelle che ho semplicemente incrociato nel mio percorso personale e professionale, penso di aver ricevuto sempre più di quanto abbia dato. Da qui il mio continuo interesse nei confronti di chi si mette al servizio degli altri senza avere un proprio tornaconto, se non quello di essere in pace con se stessi e dormire sonni tranquilli. Nei miei reportage mi occupo spesso di tematiche sociali anche difficili e mi capita frequentemente di relazionarmi proprio con le persone che forniscono aiuto e sostegno a chi è meno fortunato. Credo quindi sia molto importante raccontare anche il loro punto di vista, in modo da offrire al pubblico un quadro completo della storia che sto raccontando, evidenziandone anche gli aspetti positivi.

  •  Per evitare il rischio di una rappresentazione retorica o semplicemente celebrativa è necessario approfondire la conoscenza del mondo del volontariato: come ti sei preparato all’approccio con questa realtà?

Sicuramente è molto importante conoscere in modo approfondito la specifica realtà che si vuole raccontare e avere ben chiaro il background sociale e culturale in cui quella realtà nasce e si sviluppa. E’ importante leggere articoli, guardare altri lavori fotografici e soprattutto parlare direttamente con più persone possibili tra quelle che se ne occupano. Inoltre non bisogna dimenticare il motivo per cui ci si trova a raccontare una data storia: è molto diverso lavorare su un tema perché si è deciso di farlo autonomamente oppure perché ci è stato chiesto da qualcuno. In questo caso è molto importante avere una buona conoscenza del soggetto committente, per esser sicuri che si lavorerà con qualcuno di cui, in qualche modo, si condividono obiettivi e metodi. In ogni caso, la regola più importante “sul campo” è quella di essere il più possibile se stessi: se si lasciano entrare le persone nel proprio mondo sarà molto più probabile che anche loro siano ben disposte a lasciarti entrare nel loro.

  •  Altre qualità necessarie immagino siano empatia e rispetto per i soggetti fotografati

Assolutamente. Penso che empatia e rispetto siano fondamentali in tutte le relazioni umane, non soltanto quando si sta lavorando con persone che per qualsiasi motivo si trovano in difficoltà. La compassione è un altro elemento fondamentale del mestiere di fotografo: capire l’origine della sofferenza o delle difficoltà di chi abbiamo di fronte è l’unico modo che abbiamo per avvicinarci a loro, non solo con la macchina fotografica. L’esperienza umana è senza dubbio un elemento imprescindibile dell’esperienza professionale: dimenticarsi di metterci un po’ di cuore è un po’ come dimenticarsi di regolare tempo e diaframma. Nelle vite degli altri è bene entrarci in punta di piedi, senza rubare nulla e magari riuscendo non soltanto a prendere qualcosa ma anche a dare un nostro piccolo contributo.

  • Si riesce ad essere testimoni neutrali nel realizzare un reportage di questa natura, o si rappresenta comunque il proprio punto di vista?

Per molti fotografi è importante restare completamente neutrali, e spesso lo fanno mettendosi una specie di corazza che in qualche modo li “tiene a distanza” o li “protegge” dalle sofferenze altrui. In questo modo, forse, riescono a scattare foto splendide dal punto di vista della composizione e della luce ma il più delle volte, a mio avviso, per quanto belle rimangono fotografie “fredde”. Io credo che sia molto importante sapersi emozionare quando si è di fronte alle persone le cui vite vogliamo raccontare. Se non ci si appassiona, se non ci si emoziona per le storie che ascoltiamo, registriamo e riportiamo, si rischia di perdere quella funzione politica e sociale del fotogiornalismo che è, a mio modo di vedere, importantissima. In un mondo ideale si dovrebbero raccontare le storie che ci interessano per dare un contributo al miglioramento della società in cui viviamo: essere completamente neutrali ci rende spettatori passivi e quindi incapaci di aggiungere qualcosa. Per me la fotografia è soltanto un mezzo, non è mai il fine di quello che faccio.

  • Di questa esperienza umana ancor più che fotografica ti è rimasta impressa qualche storia in particolare?

Il progetto “Ospedale Amico” aveva il fine di migliorare alcuni servizi sanitari rivolti ai cittadini migranti, in particolare quelli legati alla salute materno infantile. Da un lato, le persone che ricordo con più affetto sono gli operatori sanitari: medici, infermieri e volontari dell’ospedale San Filippo Neri. Dopotutto sono loro le persone con cui ho passato la maggior parte del tempo in attesa che arrivasse una qualche famiglia disposta a farsi fotografare. In particolare Clelia, che mi ha aiutato davvero moltissimo ed è stata anche molto paziente. Dall’altro lato, quello di chi aveva davvero bisogno dei servizi dell’ospedale, le storie che più mi hanno colpito sono quelle delle famiglie dei bambini nati prematuri: situazioni molto pericolose per la salute del bimbo ed estremamente difficili da gestire emotivamente per i genitori.

  • Dal punto di vista del linguaggio fotografico diversi lavori ricorrono ad una grammatica fatta ad esempio di luci e ombre incise per dare forza alla rappresentazione, o all’esasperazione drammatizzante dei contrasti, cosa ne pensi?

Difficile rispondere senza sapere a quali lavori in particolare ti riferisci. Per quanto mi riguarda non sono un nemico della post-produzione: finché rimane nei limiti della deontologia – stiamo pur sempre parlando di reportage – non mi sembra possa creare problemi di sorta. Forti contrasti, desaturazione, colore o bianco e nero, sono scelte personali di ciascun fotografo e contribuiscono a crearne la cifra, la riconoscibilità e, al limite, anche l’autorialità. Il vero problema sorge quando, come troppo spesso accade, si ricorre ad escamotage estetici o stilistici per sopperire alla mancanza di contenuti.

  • C’è spazio secondo te per lavori concettuali, oltre il reportage documentario?

Credo che la fotografia documentaria abbia un respiro più ampio del reportage inteso in senso stretto o classico e che quindi sia possibile raccontare la stessa storia con linguaggi tra loro molto differenti senza che la sua essenza ne risenta o venga stravolta. Prima di ogni cosa ci sono i contenuti e per quanto mi riguarda i contenuti sono quasi esclusivamente le persone: scegliere di raccontare le loro storie con dei ritratti posati, con uno stile più vicino a quello della fotografia di strada o scegliendo, ad esempio, degli oggetti a loro cari poco cambia. Se il modo in cui lo si fa è sincero e mette il pubblico nella condizione di conoscere esattamente quali sono state le scelte fatte dal fotografo allora ogni linguaggio può funzionare e raggiungere l’obiettivo di informare in modo non superficiale.

  • Immaginiamo di essere in un tuo workshop, quali consigli ti sentiresti di dare ai nostri lettori?

Può sembrare retorico ma quel che mi sono spesso ripetuto e che, purtroppo, continuo a ripetermi è che per fare il mestiere del fotografo ci vogliono sacrificio e dedizione. Sempre restando nell’ambito del fotogiornalismo e della fotografia documentaria, è importante avere chiaro che la spinta non può essere quella economica. In un mercato saturo, caratterizzato da un forte eccesso di offerta per una domanda ormai decisamente scarsa, i soldi non possono essere la motivazione di chi si affaccia alla professione. E’ importante fare i conti con la realtà senza tuttavia perdersi d’animo davanti alle difficoltà o ai piccoli insuccessi. Se l’obiettivo è chiaro, tutto quanto ci accade deve servire a renderci più forti e determinati. Poi, a livello più pratico, mi viene quasi naturale ricordare ai lettori quel che a me è stato insegnato da mio padre: “proteggiti da te stesso”. Come dire, usiamo il cervello e cerchiamo per quanto possibile di non essere noi stessi la causa dei nostri guai.

  • È questo il mondo possibile?

Ogni mondo è possibile. Basta mettere il naso fuori dalla porta e guardarsi intorno per riconoscere gli infiniti mondi possibili. E’ una questione di interpretazione delle cose che ci circondano. Più siamo capaci a leggere la realtà e attenti alle persone che ci vivono accanto, più il mondo che vogliamo possibile sarà anche il mondo in cui viviamo. Bisogna imparare a riconoscere le opportunità quando si presentano, in modo da essere sempre più artefici del nostro mondo possibile. Il tutto con una discreta dose di fortuna visto che molte delle cose che ci succedono non le scegliamo. Ma la fortuna, dicono, aiuta gli audaci e allora tanto vale provarci e avere il coraggio di perdere. Nessuno, da solo, cambierà il mondo ma se tante persone vanno in una stessa direzione, come nel caso di chi fa volontariato, allora forse un cambiamento per il meglio è più facilmente alla portata di tutti.

 

Foto: Nanni Fontana/IMAGINE Onlus

 

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