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“Persone spinose”, di Jacopo Quaranta

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“Persone spinose”,  di Jacopo Quaranta

Il Progetto Ortocircuito è realizzato all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Palermo dalla Cooperativa sociale “Solidarietà” in collaborazione con il dipartimento di salute mentale, e la Caritas di Palermo, ed ha come sede centrale il vivaio Ibervillea. Il Progetto Ortocircuito intende mettere al lavoro nei vivai,  a scopo terapeutico, persone con disagi psichici; alcuni studi confermano infatti che questo tipo di lavoro possa aiutare i soggetti interessati accelerando il recupero di uno stato mentale normale. Facendo coltivare loro le piante, hanno la possibilità di fargli acquisire sicurezza e prendere coscienza delle loro capacità.  “Le piantine grasse sono difficili da prendere per via delle loro spine. Ma non è colpa loro se hanno le spine. È così anche per le persone con disabilità mentali, difficili da comprendere per molti.”

Jacopo Quaranta è diplomato all’ Istituto Superiore di Fotografia di Roma. Nel marzo 2007 si trasferisce a Londra dove realizza un progetto su un’alcolista vicina di casa, Naomi, con il quale vince il secondo premio all’International Photography Award (IPA). Tornato a Roma, inizia a lavorare come ritoccatore e stampatore presso il laboratorio fotografico del 10b Photography, che vanta tra i suoi clienti fotografi delle agenzie VII, Noor, Magnum Photos.
Nel settembre 2009 si trasferisce a New York dove frequenta il programma in Fotogiornalismo e Fotografia Documentale dell’ International Center of Photography (ICP), dove si diploma un anno dopo. Dal settembre del 2009 al gennaio 2010 svolge uno stage presso l’archivio dell’ICP, dove scansiona e classifica più di 400 foto dell’opera di Robert Capa. Nel febbraio del 2011, mentre si trova a Beirut, scoppia la rivoluzione in Egitto, dove documenta i primi giorni di protesta al Cairo; quel lavoro sarà pubblicato sul Time online.

Attilio Lauria

  • Cos’è che ti ha spinto ad interessarti del volontariato?

Mi ha sempre interessato sin da piccolo, perché facendo un’analisi della società contemporanea, con le sue diverse implicazioni politiche e finanziarie, ci si accorge che il sistema così com’è crea diverse problematiche sociali. Credo perciò che se si vuole trovare il “lato buono” di questa società, occorra guardare alla società civile, perché è lì che c’è più possibilità di trovarlo, piuttosto che tra burocrati che vivono lontano dal nostro mondo. E i volontari sono “il fronte dei buoni”, quelli che s’impegnano cercando di migliorare la società attraverso l’azione personale diretta.

  •  Per evitare il rischio di una rappresentazione retorica o semplicemente celebrativa è necessario approfondire la conoscenza del mondo del volontariato: come ti sei preparato all’approccio con questa realtà?

Personalmente credo che dovrei migliorare nella ricerca, nel senso che grazie all’approfondimento è possibile notare cose che diversamente passerebbero inosservate;  e avendo più informazioni, si possono realizzare delle immagini più complesse. Quindi più approfondimento si fa su qualsiasi argomento scelto, e più idee visive si potranno elaborare. Ognuno ha le sue idee che nascono dalla propria sensibilità, dal proprio modo di percepire le cose, quel background che si forma nel corso della nostra vita, con stimoli che provengono sia dal mondo esterno, che dalla nostra interiorità. La stimolazione quindi, attraverso questi input, dovrebbe generare un flusso di idee ed immagini. Tante volte succede che quello che ci si trova davanti è completamente diverso da quello che ci si aspettava, ma è una buona cosa perché questo ci pone delle domande, che a loro volta generano curiosità, e quindi si cercano altre foto, o delle foto che si basino su quello che si prova in quel momento, in quel determinato posto.

  •  Altre qualità necessarie immagino siano empatia e rispetto per i soggetti fotografati

Per quanto ci siano diverse “scuole di pensiero”, personalmente non posso prescindere da chi sto fotografando, e dunque si, occorre il massimo rispetto per chi si sta fotografando: non possiamo dimenticare di essere degli intrusi temporanei nelle vite delle persone che abbiamo davanti, ci vuole empatia per comprendere le  emozioni che le persone di fronte a noi provano mentre ci accettano, e si mettono in gioco per raccontare le loro vite: quanti di voi farebbero lo stesso, ci avete mai pensato? Se qualcuno viene a chiedervi di fotografare come vivete, cosa sentite, cosa provate, per raccontarlo attraverso delle immagini, non vi aspettereste un minimo di rispetto e comprensione in cambio? Io ho incominciato a fare storytelling per caso, il mio primo racconto è stato un breve periodo di vita di una persona che si chiamava Naomi, che aveva un problema con l’alcol. Una delle persone con l’animo più buono che abbia conosciuto. Ero a Londra per provare a fare foto di moda e lei era la mia vicina di casa; mi ha visto con la macchina al collo e mi ha chiesto se le facevo una foto, abbiamo cominciato a parlare, e di lì a poco, ero sempre nel suo appartamento. Si fidava di me e di quello che stavo facendo. Io sapevo di essere un elemento esterno, ma ho cercato il più possibile di darle dignità e raccontare la sua storia, quello che provava e quello che pensava, poiché sentivo una responsabilità per quello che stavo facendo. Quindi si, quando si tratta di persone, l’empatia e il rispetto sono fondamentali per un certo tipo di fotografia.

  •  Si riesce ad essere testimoni neutrali nel realizzare un reportage di questa natura, o si rappresenta comunque il proprio punto di vista?

Io non credo nell’obiettività nel fotogiornalismo o nel giornalismo, e, d’altra parte, negli Stati Uniti, dove ho vissuto e lavorato per un paio d’anni, la questione è ormai superata: tutti i racconti sono soggettivi, ed anzi, si sta dando sempre maggiore enfasi ad una visione soggettiva piuttosto che all’obiettività. Non a caso i fotografi di maggiore successo sono i fotografi con una visione unica, e unica vuol dire soggettiva. Essere obiettivi, e avere morale ed etica non sono la stessa cosa, sono cose molto diverse secondo me. Quello che veramente è importante, è essere sinceri, e quando si racconta una cosa ci si prende le responsabilità di quello che si sta dicendo.

  •  Di questa esperienza umana ancor più che fotografica ti è rimasta impressa qualche storia in particolare?

“Persone spinose” nasce da una commissione per la campagna di comunicazione della CEI, che scelse 8 giovani fotografi per documentare diverse iniziative realizzate nel campo del volontariato; nel caso del mio lavoro, la CEI ha devoluto all’associazione i fondi per la costruzione della serra. Io non sono un grande sostenitore della chiesa cattolica, e quindi fare questo reportage mi ha messo in una situazione emotiva controversa. Questo disagio è sparito nel momento in cui ho conosciuto le persone che erano lì. Gli psicologi, gli aiutanti, i pazienti, tutte persone favolose, e quindi ho completamente dimenticato il committente, ed ho cercato di fare il mio meglio. Ora ogni volta che vedo una piantina grassa ci ripenso, e la mia percezione delle piante grasse è cambiata: prima non le capivo, ora le adoro.

  •   Dal punto di vista del linguaggio fotografico diversi lavori ricorrono ad una grammatica fatta ad esempio di luci e ombre incise per dare forza alla rappresentazione, o all’esasperazione drammatizzante dei contrasti, cosa ne pensi?

Penso che la tecnica sia una cosa noiosa, e che ognuno sia libero di fare quel che vuole con le luci, basta che funzioni. Nel senso che non è una questione di luci e ombre incise, ma una questione di visione. Se prendiamo ad esempio grandi fotografi come quelli della Magnum, uno come Alec Soth fa tutto con pochissimi contrasti, mentre David Alan Harvey invece fa tutte foto contrastate. Dipende dalla visione che una persona ha, e la visione si raggiunge soltanto con l’esperienza, scattando almeno 100 foto al giorno. Sicuramente anche guardare tante foto aiuta a sviluppare un gusto, è la cosa che lo sviluppa di più, ma poi però bisogna mettersi all’opera e scattare, scattare, e poi osservare le proprie foto, cercare di capire come le si vuole, e così inizieranno ad arrivare degli input ai quali non si potrà resistere, e allora se il tuo stile, visione, fotografia, è contrastato, che fai cambi per il mercato o rimani te stesso? La stessa cosa si può dire del contrario: se la tua visione è con milioni di sfumature, allora bisogna che quelle sfumature le catturi, le elabori, e cerchi di capire quale è la direzione della tua fotografia per farle vedere al mondo. Quindi penso che “se una foto non è abbastanza buona, significa che non si è abbastanza vicini”, frase conosciutissima di Robert Capa che condivido pienamente, e non intendeva soltanto una vicinanza fisica, ma con il cuore e la mente.

  •  C’è spazio secondo te per lavori concettuali, oltre il reportage documentario?

Di certo per ottenere i fondi per le varie missioni che una ONG sostiene, un lavoro concettuale potrebbe aiutare molto di più rispetto ad un lavoro documentario. Il problema è che spesso le ONG non hanno le persone competenti per scegliere le foto (ad eccezione di quelle di grandi dimensioni organizzative che operano su scala internazionale), e quindi la scelta delle foto viene fatta da qualcuno che viene semplicemente incaricato di fare tale scelta solo perché gli piace la fotografia, ma senza formazione si rischia di dare un messaggio per un altro. Secondo me ci può essere spazio per lavori più concettuali, ma attualmente la realtà lascia poco spazio per questo tipo di lavori rispetto a quelli documentari.

  •  Immaginiamo di essere in un tuo workshop, quali consigli ti sentiresti di dare ai nostri lettori?

Di non pensare alla tecnica. La tecnica è solo l’inizio: quando si impara, diventa come respirare. Deve venire naturale, e nel momento in cui non si pensa più alla tecnica incominciano ad arrivare le immagini più belle, emozionanti, sorprendenti. Ci si lascia andare, e incomincia un viaggio dentro noi stessi e verso il mondo che ci circonda. Non pensando alla tecnica si ha un dialogo tra il nostro mondo e il mondo esterno anche quando si scatta; se si sta sempre a pensare ai pixel, diaframmi, tempi, hei, hai già perso la foto! In ogni modo, guardare immagini aiuta a migliorare l’occhio, quindi scegliete dove guardare le immagini, non basatevi solo sul gusto popolare, guardate la storia della fotografia, guardate tanti, tanti libri fotografici oltre che a siti internet, non tutto si trova sulla rete!

 

  1. isabella tholozan says:

    Perchè le piante grasse hanno le spine? Perchè sono delicate.
    E perchè sono delicate? Perchè sono succose e appetibili!
    Una bella metafora, scelta con saggezza per accompagnare un progetto importante e impegnativo.
    Ben raccontato da immagini che oltre alle spine ci raccontano dei contatti profondi e affettuosi che legano le persone impegnate nell’attività, al dilà delle spinose difficoltà.
    La natura ci insegna, l’occhio del fotografo ci accompagna e aiuta a migliorarne la comprensione.

  2. Massimo Pascutti says:

    Il parallelo portato avanti da Jacopo Quaranta tra le persone “spinose” e le piante grasse , funziona a meraviglia.. Sappiamo che le piante grasse sono spesso inavvicinabili a causa della loro struttura “scorbutica”, ma sono anche le piante che richiedono meno manutenzione rispetto alle altre e sono capaci di rimanere in vita anche in situazioni climatiche proibitive.Spesso anche i disabili psichici hanno un carattere scorbutico e spinoso, ma sono tenaci e tanto attaccati alla vita e spesso con la loro voglia di vivere riescono a motivare tutti coloro che gli stanno intorno.
    Questa serie di fotografie ci documenta il miracolo di tenacia di queste persone e di coloro che li aiutano. Grazie a Jacopo e complimenti per il suo bellissimo lavoro

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