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Tra reportage sociale e storytelling

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Tra reportage sociale e storytelling

Nel suo ultimo saggio “La fotografia contemporanea” Michel Poivert parla della “crisi degli utilizzi” della fotografia, e in particolare del reportage, definito sempre più spesso in termini di “storytelling”; ne parliamo con Alessandro Mallamaci, Ambassador Fuji, e co-direttore artistico del festival di fotografia “La misura del paesaggio”, con all’attivo pubblicazioni, mostre e collaborazioni con quotidiani e riviste, socio Tau Visual, l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti.  (www.alessandromallamaci.it/)

Attilio Lauria

  • I confini del reportage sembrano essere diventati piuttosto fluidi, pensi che si vada verso un’ibridazione di linguaggi?

Sappiamo bene come non esista alcuna verità in fotografia. Si dice che le foto migliori siano quelle che pongono delle questioni, non quelle che offrono delle risposte. Sono d’accordo e credo anche che qualsiasi fotografia sia un analogo della realtà, una sua rappresentazione e in quanto tale non potrà in nessun caso essere oggettiva, assoluta, vera, perché sarà sempre mediata da uno sguardo. Da questo punto di vista conta poco che il fotografo abbia realizzato le sue immagini cogliendo “istanti decisivi”, vivendo per anni accanto ai propri soggetti o mettendoli addirittura in posa. Personalmente preferisco l’approccio di chi cerca di scomparire, sia lavorando con le persone e trascorrendo con loro tanto tempo, sia osservando con lentezza il paesaggio.

I fotografi che amo maggiormente oggi sono quelli che non fanno mistero della loro conoscenza del mestiere. La fotografia, a certi livelli, è in grado di esprimersi attraverso differenti linguaggi. Volendo spiegare questo concetto in maniera più semplice potremmo affermare che il fotografo sa come si scattano le foto di “reportage”, come quelle di “architettura”, ecc. A mio avviso il fotografo più intelligente – e anche quello più onesto forse – non è colui che mantiene il medesimo stile per tutta la vita, quanto colui che è in grado di esprimersi in vari modi e sceglie il linguaggio in funzione della storia che deve raccontare. Mi sembra anche un approccio più rispettoso della narrazione. Un modo per dare maggiore importanza alla storia piuttosto che alla propria riconoscibilità e al proprio narcisismo. È un’evoluzione del concetto di autore.

Più in generale ciò che conta davvero è l’onestà del fotografo, in tutte le accezioni che questa parola comprende, tra cui anche la qualità della storia che trovo essere strettamente correlata allo spirito con cui un fotografo realizza il proprio lavoro.

  •  Si può dire che la differenza tra reportage e storytelling, come sembra di moda definirlo oggi, sia quella che passa tra il documentare dei fatti, sebbene si tratti pur sempre di una mediazione, e narrare una storia?

Può darsi che si tratti solo di una questione di qualità della narrazione? Sono convinto che il ruolo dei fotografi oggi non sia più quello di limitarsi ad informare. La comunicazione visiva legata alle news, al mondo dell’informazione sarà affidata sempre di più ai giornalisti stessi o addirittura alla gente comune. La facilità con cui chiunque oggi può scattare una bella foto, fa si che il fotografo debba necessariamente rendersi protagonista di un ulteriore step evolutivo. In questo senso non mi fa alcun effetto che la fotografia sia puro reportage piuttosto che “staged photography” o addirittura “fiction” pura. Ciò che conta è che la storia sia narrata con amore, passione e quindi con qualità. Oggi più che mai le storie fotografiche necessitano di ricerca e dedizione. Ciò non è sempre valido, soprattutto se si pensa alla pubblicazione su alcune riviste, ma personalmente amo i lavori che presentano un certo grado di approfondimento e conoscenza dei fatti da parte del fotografo. Si tratta proprio di calarsi in un contesto e di viverlo appieno, oltre che di rispettarlo, altrimenti si rischia di agire come turisti che in un tempo ristretto producono delle belle cartoline dal sapore esotico, con il solo scopo di mostrarle ai propri amici di ritorno dalle vacanze.

  •  Ci sono degli elementi canonici del racconto?

Ho cercato per anni una risposta a questa domanda, ho frequentato corsi e acquistato libri per giungere alla “conoscenza della verità”. Taluni affermano che una storia debba essere composta da tutti gli stili fotografici, quindi ritratti, paesaggi, still life. Però esistono anche delle storie composte solo da ritratti ambientati o solo da paesaggi. E il paesaggio stesso non è anch’esso un testimone degli avvenimenti? Le sue ferite non ci raccontano la storia e anche la visione delle persone che lo abitano? C’è, ad esempio, chi afferma che una storia vada costruita in tre atti e chi sostiene che prima di iniziare una sessione fotografica occorra aver preparato degli storyboard; un approccio, quest’ultimo, che non condivido minimamente.

Dunque può darsi che non esistano canoni assoluti. È plausibile affermare che ogni racconto meriti un suo sistema di regole che sia conseguenza diretta delle necessità del fotografo e soprattutto delle sue esigenze legate alla narrazione della storia stessa.

  •  Immaginiamo di essere in un tuo workshop, quali consigli ti sentiresti di dare ai nostri lettori?

Molto spesso mi trovo di fronte ad un pubblico eterogeneo composto in gran parte da amatori. La loro fortuna è quella di non avere la necessità di accettare compromessi in fotografia. Possono esprimersi con totale libertà. Proprio per questo forse non ha senso dedicarsi ad una ricerca che si muova in ambiti troppo diversi. Forse il miglior consiglio è quello di ascoltare la propria mente e il proprio cuore per fotografare ciò che più di ci interessa, ci turba o ciò che più amiamo. Chiunque realizzi un lavoro fotografico senza una convinzione profonda, non riuscirà ad attirare l’attenzione di chi guarderà il suo lavoro. Io consiglio spesso di fotografare le proprie ossessioni. Più in generale credo che non abbia senso perdere tempo in inutili esercizi di stile ma sia utile piuttosto andare a fondo, al fine di comprendere ciò che davvero ci interessa.

  • Grazie Alessandro!

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