Una fotografia (non) dice più di mille parole!
Ancora dal seminario di Bibbiena: “Ogni fotografia attende d’essere spiegata o falsificata da una didascalia”, scrive Susan Sontag, ricordandoci quanto possa essere fuorviante il luogo comune che pretenderebbe di conferire alla fotografia ciò che la fotografia non ha, e che non potrà mai avere: la parola.
Attilio Lauria
Il nostro progetto intende comprendere e documentare il mondo del volontariato in tutte le sue innumerevoli articolazioni, il che significa in altri termini offrire agli altri la nostra conoscenza delle realtà indagate; ma ogni nostro lavoro da solo, senza la descrizione della poetica, e soprattutto senza la didascalia, non potrà mai spiegare nulla al di la delle apparenze superficiali, perché è proprio questo il limite della conoscenza del mondo attraverso la fotografia: da sola non spiega, semmai è un invito alla deduzione e all’interpretazione. Ecco perché i soliti semiologi avvertono come in fotografia ci sia da distinguere tra il messaggio denotato, che è assolutamente analogico, privo cioè di ogni riferimento ad un codice (ricordate il Roland Barthes della fotografia come messaggio senza codice?), e un messaggio connotato, quello relativo cioè all’espressione (la dimensione dei significanti e dei significati). La foto obbliga dunque a un deciframento; e in questa attività di deciframento è possibile non solo equivocare il messaggio, ma addirittura stravolgerlo già a monte con l’uso di una didascalia “interessata”, come negli esempi che seguono.
Alcuni esempi (tratti dalle slide proiettate a Bibbiena) di didascalie che presentano in maniera diversa una medesima situazione
È anche vero che la fotografia non conserva il suo significato nel tempo, i suoi ormeggi storici si staccano, e “va alla deriva in un dolce e astratto passato, aperta ogni sorta di lettura o di accoppiamento con altre fotografie”. A prescindere dagli Autori, e dalle loro motivazioni, una fotografia è sempre un oggetto in un contesto, e il suo significato originario è destinato a consumarsi; in altre parole, al contesto che determina i possibili usi immediati della fotografia, succedono inevitabilmente altri contesti, nei quali vengono modificati e successivamente sostituiti da altri (tra i tanti possibili esempi, ecco un utilizzo in un contesto pubblicitario di una foto di reportage – ph. Franco Zecchin).
Poiché il nostro progetto è una sorta di “punto della situazione”, un documento cioè ancorato ad un preciso momento storico, ecco dunque un altro motivo che rende indispensabile una corretta didascalia, che indichi quanti più elementi possibili (il luogo, il tempo, i personaggi e la situazione/evento) che aiutino a collocarla nel suo contesto storico.
Certo, c’è anche chi sostiene che anche una didascalia perfettamente esatta è solo una possibile interpretazione necessariamente limitativa della fotografia alla quale è unita, oltre ad essere “un guanto che si infila e si sfila con facilità”, ma le nostre sono solo “pillole”, lascio a voi la voglia di approfondire… a proposito di approfondimenti, vi segnalo un’interessantissima tesi di laurea di Daria Piccotti dal titolo “La didascalia fotografica: il rapporto tra testo e immagine”, scaricabile all’indirizzo: http://dspace.unive.it/handle/10579/5120
Appuntamento al prossimo post, nel quale ci soffermeremo sul contenuto etico delle fotografie, anch’esso fragile nel tempo al pari dei significati…
In questa foto si vede una giovane donna in un bar, lo sguardo verso il basso, la punta delle dita sulla base del suo bicchiere di vino. Accanto a lei si trova un signore più vecchio che la osserva. Robert Doisneau, ci dice Gisèle Freund, scattò questa fotografia mentre girovagava nei bistrot di Parigi alla ricerca “di una buona fotografia”. Sedotto dalla scena che si
svolgeva dinanzi a lui, ed in particolare dallo sguardo che l’uomo indirizza alla
ragazza, chiese il permesso di scattare una fotografia. Doisneau inviò la foto alla sua agenzia, senza immaginare cosa sarebbe accaduto. Poco tempo dopo, con grande sorpresa Doisneau scoprì l’immagine in un giornale a corredo di un articolo in cui si illustravano i danni dell’alcool. Ma la storia non si fermò là: poco tempo dopo, la fotografia viene nuovamente pubblicata in un altro giornale, ma questa volta in una storia sulla prostituzione. L’uomo che appare su questa fotografia era un professore, la cui reputazione fu irreparabilmente danneggiata da questi due articoli. Benché abbia querelato il giornale, e vinto la causa, continuò ad essere vittima di ogni specie di sospetti, e fu anche costretto ad abbandonare il suo lavoro d’insegnante. Ecco un esempio dunque di una fotografia che non parla da sola, e che anzi potrebbe dire tutto, e il contrario di tutto!
Il primo numero di Paris Match uscì il 25 marzo del 1949 con lo slogan “Le poids des mots, le choc des photos”, Il peso delle parole, lo choc delle foto, un motto che gli si rivolta contro con la pubblicazione di questa immagine con la seguente didascalia: “Sur les portables, la musique du rap joue à fond. La passagère, pas rassurée, se plonge dans sa lecture et n’en sort pas.” (Sugli smartphone, la musica del rap suona a tutto volume. La passeggera, preoccupata, si immerge nella sua lettura senza distogliere lo sguardo). In realtà, la donna è una professoressa che insegna all’istituto universitario professionale Alfred-Nobel di Clichy, e i giovani che la circondano sono i suoi allievi. La professoressa, seccata da questa interpretazione, richiese invano una smentita a Paris-Match. Poco tempo dopo, contattò “L’umanità”, un magazine che pubblicò un’indagine che rivelò le manipolazioni di Paris-Match, con il titolo “Il peso della menzogna, lo choc del trucco”. In quest’articolo, la professoressa afferma: “Non ho paura a Clichy, e non ho paura delle persone di colore”.
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Bellissimo intervento! Interessante e molto esaustivo!
Questo progetto si sta rivelando un vero corso sulla fotografia come normalmente non si fa!
Pensare alle conseguenze, prima di agire, è importante in qualsiasi attività; nel campo fotografico, quando vengono coivolti soggetti singoli, gli esiti possono trasformarsi in vere e proprie tragedie, come abbiamo visto nellesempio dedicato a Doisneau.
L’occhio vede quello che il cervello sa! e chissà in quanti, nel tempo, ne hanno approfittato!
La fotografia è, come la penna, un’arma e, come tale, può difendere ma anche ferire!
Grazie Attilio per questi tuoi preziosi esercizi di pensiero che ci aiutano ad avere approcci diversi e consapevoli.
Ecco un altro bellissimo articolo di Attilio che ci fa capire quanto una corretta e soprattutto onesta didascalia, possa dare più forza e impatto ad un lavoro fotografico. E’ anche vero, però che la didascalia non deve sostituire completamente la forza dell’immagine , ma deve essere un sostegno discreto e forte alla fotografia, che deve mantenere la sua forza dirompente. E’ un equilibrio che non è facile da raggiungere, ma è fondamentale in un contesto come TpT .
La fotografia, la scrittura, la musica, la danza…sono forme di espressioni. E’ riconosciuto come l’uomo sia in grado di modulare i suoni per enfatizzare emozioni che sono forme astratte di condivisione sentimentale, tanto è vero che accompagnano sempre un film per sublimare un momento romantico, così per enfatizzare un’attesa spasmodica, o donare tensione durante la proiezione di un triller. La scrittura che da sempre con la sua ampia peculiarità descrittiva ci permette di visitare mondi lontani, o addirittura inventati, se associata alla fotografia acquisisce lo stesso potere che la musica dona al carattere di un film. All’utilizzatore/diffusore del messaggio spetta la responsabilità del contenuto, ma il doppio strumento possiede un potere maggiore della solo scrittura o della sola visibilità di un’immagine. Anche in questo caso il potere sta nella conoscenza di uno o più strumenti e nell’uso che se faccia.