“Urtype”
Urfaut, fotografo-hacker crea dagherrotipo digitale
DI DAVIDE PYRIOCHOS
A prima vista sembrano foto d’altri tempi: vecchie polaroid in bianco
e nero appese a una parete. Avvicinandosi balza però agli occhi che
sono rigide, resinose. Girandole, si scoprono sul retro un chip e una
linguetta metallica. Sono in realtà schermi di e-reader su cui è
stata caricata un’immagine, che resta incredibilmente impressa
sulla superficie senza l’intervento di batterie né collegamenti
elettrici. Sono un’invenzione, una sfida, un supporto fotografico
inedito: sono i “dagherrotipi digitali” di Urfaut (urfaut.com),
in mostra dal 4 al 22 febbraio alla galleria Foto Forum
(foto-forum.it)di Bolzano.
«Da più di 10 anni – spiega l’autore – porto avanti una ricerca sull’alchimia e le immagini archetipiche codificate nei Tarocchi. Per realizzare le serie che avevo in mente, volevo però un supporto nuovo, adatto allo scopo. Il lavoro è
iniziato un anno fa, quando ho letto che un Kindle Amazon, o
qualunque altro e-reader, non consuma energia quando una pagina di
libro viene letta: l’elettricità è richiesta solo per
visualizzare una pagina nuova». Ciò spiega come mai i
“dagherrotipi” di Urfaut mostrino un’immagine come fossero
vecchie foto di carta, senza bisogno di alcun collegamento elettrico.
Raggiungere il risultato finale è stato però tutt’altro che
semplice. Gli schermi di e-reader attualmente in uso
non permettono ai proprietari di caricare immagini in autonomia.
Urfaut ha perciò studiato i manuali che descrivono il funzionamento
dei libri elettronici, ha frequentato per mesi blog su internet, e
grazie all’aiuto di ingegneri affascinati dal progetto, ha
apportato a un e-reader le opportune modifiche di hardware e software
per caricare sugli schermi immagini fotografiche. Quel primo
e-reader, dotato di batteria, scheda madre modificata, chip
processore, e collegamento per i monitor “vergini” (i
“dagherrotipi” da imprimere, gli “e-paper”) è diventato così
la sua “camera oscura” digitale, che “infetta” d’immagini
schermi programmati per le sole pagine dei libri. «Ciò
che più mi affascina di questo lavoro
– spiega Urfaut – è che il funzionamento degli schermi digitali
è in realtà molto simile alla fotografia classica». Nell’era
analogica, un foglio di carta ricco di sali d’argento veniva
colpito – dentro la camera oscura – da un flusso di fotoni. Il
negativo, lavorando come un filtro, lasciava passare pochi o nessun
fotone per il bianco del foglio di carta, molti fotoni per il nero,
più o meno intenso a seconda della cristallizzazione dei sali. «Con
gli schermi digitali attualmente in commercio, abbiamo piccole sfere
bianche e nere immerse in un liquido viscoso. L’impulso elettrico –
dice il fotografo-hacker – porta in superficie le une o le altre e
crea così 16 differenti tonalità di grigio. Con la mia tecnica la
foto digitale mantiene la stessa granulosità della fotografia
analogica, che la moderna stampa digitale invece perde».Un
risultato estetico fondato su un problema filosofico: «Tutta
la riflessione sulla fotografia classica, da Bergson e Barthes,
parlava dell’immagine fotografica come di un “attimo congelato”
che si fissa nella materia. Col digitale – argomenta l’artista –
salta tutto, perché la visualizzazione sugli schermi dei computer è
“a caldo”, è retro-illuminata. E soprattutto è instabile,
perché sullo stesso schermo visualizziamo qualunque immagine un
istante dopo l’altro. Io non ho nulla contro il digitale, ma
serviva un ponte tra i due linguaggi, qualcosa che garantisse la
comunicazione tra le due ere, altrimenti anche tutta la riflessione
filosofica rischia di andare perduta».Il
“dagherrotipo digitale” è questo ponte. «La
parte più difficile – racconta Urfaut – per la quale sono
rimasto chiuso nella mia stanza per 5 mesi, è stata la rifinitura
della visualizzazione. In un primo momento infatti le immagini
apparivano sugli schermi, ma la qualità era disastrosa. Scoprire
tutti i trucchi, le piccole modifiche che hanno alzato la qualità
dell’immagine, è stata la cosa più dura». Per regalare alla
nuova era digitale un ponte col passato, ne valeva però la pena.
Come vale la pena giocare sul piano semantico con le 22 foto della
serie in mostra a Bolzano, per cogliere le differenze rispetto agli
arcani con cui dialogano. «La tesi di fondo – svela Urfaut – è
il depotenziamento del mascolino e l’emergere del femminino. Ma qui
– conclude – il discorso di fa lungo (http://www.margutte.com/?p=4017)».
S C H A U F E N S T E R: Urfaut “urtype” 04.02. – 22.02.2014
G A L E R I E: Horatiu Sava “Transilvania” 22.01. – 22.02.2014
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