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La fotografia come strumento di inclusione

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La fotografia come strumento di inclusione

Insieme ad Autori e realtà che operano nel settore del volontariato, ci occuperemo anche di Agenzie fotografiche espressamente dedicate a questo settore; iniziamo oggi con Molo7 Photo Agency (www.molo7photoagency.com), agenzia fotografica con sede a Roma dedicata essenzialmente al reportage sociale, fondata da Ilenia Piccioni e Antonio Tiso. Tra i numerosi lavori realizzati – pubblicati su Le Monde, Neue Zurcher Zeitung, l’Espresso, L’Europeo, Il Venerdì di Repubblica, Sette, Peace Reporter, Repubblica, Amnesty International Magazine, Il Manifesto, Popoli, Narcomafie -, i due Autori hanno raccontato le condizioni di vita nella carceri psichiatriche italiane. L’Agenzia ha rapporti di collaborazione con numerose organizzazioni e onlus tra cui Amnesty International, UNHCR, Terres des Hommes, Libera, Un Ponte Per, Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Enel Cuore Onlus, Fondazione Santa Lucia, Upter Solidarietà.

Attilio Lauria

  • Perché un’agenzia dedicata al terzo settore?

Prima di lavorare come fotografi eravamo operatori presso una casa famiglia di Roma chiamata CasaBlu, nel quartiere di Nuovo Salario. Il nostro primo lavoro documentario fu una raccolta di poesie, racconti e fotografie all’interno di questa residenza abitata da persone diversamente abili adulte. Fu una esperienza faticosa, ma rigenerante a livello umano e artistico. Il lavoro divenne un libro, La CasaBlu e le Voci Assolate, edito da Del Cerro. Fu una grande emozione per noi ma anche per gli abitanti della casa vedere su carta il frutto del lavoro di oltre due anni. Durante una presentazione un docente universitario di RomaTre ci disse che il nostro volume era il primo caso di letteratura e immagini prodotta all’interno di una casa famiglia. Quando abbracciammo la fotografia professionale, ci venne naturale proseguire dunque un sentiero intrapreso anni prima e svilupparlo in maniera più articolata, qualificata, dedicando maggiori energie e nuove competenze.

  •  Con “Tracce di una Roma periferica” avete vissuto un’esperienza molto particolare, con la fotografia al centro di un progetto di inclusione per disabili: la fotografia dunque come medium terapeutico e di socializzazione

La partecipazione come fotografi al progetto “Tracce di una Roma periferica” è stata un’esperienza entusiasmante e arricchente sia a livello personale che professionale. Il nostro compito è stato accompagnare, insieme ad un’archeologa e una storica dell’arte, un gruppo di ragazze e ragazzi disabili in un ciclo di passeggiate fotografiche alla scoperta di alcuni siti di interesse archeologico e urbanistico nel Municipio V di Roma. Il nostro obiettivo era quello di guidare i ragazzi a ritrarre la bellezza nascosta di ciò che stavano osservando, e sono sempre riusciti a stupirci con le loro visioni: non si sono limitati a rappresentare quanto veniva spiegato loro dalle guide, ma hanno ampliato il loro sguardo, ritraendo spesso anche la vita di quartiere che scorreva intorno, la città e i suoi abitanti in movimento. Le fotografie realizzate da questi ragazzi documentano lo stato attuale di un pezzo di patrimonio archeologico della città di Roma, e guardando le loro foto prendiamo coscienza che quel patrimonio ci appartiene.

  •   Come ci si prepara allapproccio con la realtà del volontariato?

Con molto rispetto, curiosità, empatia, capacità di mettersi in gioco. Incontri persone dalle quali puoi imparare molto, essere umani che possono emozionanti tanto e tu puoi fare altrettanto verso di loro se vai oltre le tue paure o i clichés che legittimamente puoi avere. Poi è importante evitare di cadere nella retorica e nei luoghi comuni che in questo ambito sono sempre in agguato e sono il contraltare del cinismo, non fanno bene a nessuno.

  •  Si riesce ad essere testimoni neutrali nel realizzare dei reportage di questa natura, o si finisce per prendere le parti?

Noi in realtà ci sentiamo molto poco neutrali, nel senso che umanamente c’è una vicinanza, una solidarietà senza le quali probabilmente orienteremmo i nostri lavori su altre tematiche. Detto questo, però, quando ci poniamo di fronte ai nostri soggetti, siamo aperti a conoscerli nelle loro unicità, comprese le contraddizioni e i difetti che ognuno di noi naturalmente ha. Il nostro è un  approccio socio-curioso, antropologicamente aperto. Non vogliamo dimostrare qualcosa in particolare, ma esplorare e raccontare una storia che ci ha appassionato, offrendo allo spettatore i mattoni con cui costruirsi una propria visione personale. Ci piace contribuire a creare nuove forme di conoscenza attraverso il canale dell’arte.

  •  Cosa vi è rimasto di questa esperienza umana ancor più che fotografica?

La voglia di fare. La sensazione di una calda umanità. Il ricordo di piacevolissime passeggiate fotografiche e la scoperta di una Roma che non conoscevamo.

  •  C’è secondo voi un linguaggio proprio della fotografia sociale?

E’ giusto che la fotografia sociale sia un luogo aperto, dove forme differenti di linguaggio trovano spazio. Ogni fotografo a sua volta deve essere un po’ ladro nel senso di prendere qualcosa da altri fotografi che lo ispirano, ma anche dal cinema, dalla musica, dalla pittura e poi rielaborare questi stimoli in maniera personale. L’arte è libera e questo vale sempre. Mentre sul piano etico c’è un comune denominatore che dovrebbe ricorrere sempre nei lavori di fotografia sociale ed è il rispetto per la verità e le persone.

Partiamo dai nostri sentimenti, dalle nostre curiosità. Poi una volta individuato un progetto, stabilito il focus, studiamo quanto è stato fatto intorno al tema, per creare qualcosa di personale e nuovo. Nel caso del progetto sulla Lingua dei Segni, sentivamo che lavorare sul piano prettamente foto-documentaristico sarebbe stato un limite perché avrebbe lasciato molte curiosità aperte, mentre l’idea di lavorare con il video per riprendere le performance poetiche in Lis e con la fotografia per fissare momenti particolarmente intensi ci sembrava più adatta. L’idea era far conoscere la bellezza e la forza di una lingua che viene parlata ogni giorno nelle nostre città da una minoranza di persone della nostra stessa nazionalità e cultura, ma con un sistema linguistico differente. La Lis che viene segnata al telegiornale non restituisce, agli occhi degli udenti, la pienezza di una lingua bellissima. Da qui nacque il nostro progetto il cui risultato, in ultima analisi, è artistico-documentativo.

  •  Immaginiamo di essere in un vostro workshop, quali consigli vi sentireste di dare ai nostri lettori?

Studiare, sperimentare, fare ricerca, lavorare con costanza, passione e metodo. Che poi sono le linee guida a cui ci ispiriamo ogni giorno. Sono belle parole, faticose da attuare, ma ne vale davvero la pena.

  • È questo il mondo possibile?

Se non ci fossero alternative alle ingiustizie e alle barbarie che ogni giorno percorrono il pianeta, varrebbe la pena vivere? A noi però non piace essere notai della realtà, ma poeti della realtà. Ci piace scovare i mondi possibili da coltivare su questa terra, i mondi che hanno un valore, una purezza intrinseca, una bellezza, raccontarli e prendere qualche pezzetto da instillare nelle nostre vite. In fondo i primi a dover cambiare per essere migliori siamo noi stessi. Poi dato che questo tipo di ricerca ci appassiona, da qualche anno abbiamo creato con un gruppo di amici una associazione che si chiama Storie di Mondi Possibili con cui raccogliamo storie di cambiamento sociale. Ci fa sentire ancora più attaccati alla vita.

Tutte le foto cortesia degli Autori, Molo7Photo Agency

 

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