“No’ te vedi che son in Fine,
portame a casa
che voi morir soto la me seresara.
Portame a casa mia”.
Sono parole personali, che fanno parte del vissuto profondo e intimo di Adriana Rezzele, poetessa cimbra di Selva di Progno, una laurea in Geografia. Sono le ultime parole che il nonno paterno dice al padre di Adriana pochi giorni prima di morire all’ospedale di Tregnago.
Quando l’ho incontrata per realizzare un suo ritratto e ho letto quella frase nella premessa di uno dei suoi libri mi sono profondamente commossa.
Conosco perfettamente il dialetto di queste montagne perché le mie radici sono lì in una di quelle contrade, nonostante questo trovo queste parole universali nel cercare di esprimere quel senso viscerale di appartenenza ad un territorio.
Per entrambe, seppur impiegando mezzi differenti, la scelta di indagine sulla Lessinia è prima di tutto una decisione che deriva da questo senso di appartenenza, che comporta una relazione tra ciò che esiste o ancora “resiste” in questa terra Cimbra, e ciò che viene percepito.
Il geografo francese Frémont descrive bene questo e parla di “spazio vissuto”.
Lo spazio vissuto è in fondo il paesaggio di ognuno, non quello oggettivo presente sulla carta geografica ma più semplicemente quello che noi percepiamo e porteremmo a rappresentazione simbolica della nostra realtà utilizzando gli strumenti a noi più congeniali.
Lo spazio vissuto è diverso per ciascuno di noi, ma è condivisibile nell’espressione artistica perché il nostro spazio possiede elementi comuni a quello degli altri.
Il racconto fotografico “Spazio vissuto”, di Paola Fiorini, è un atto artistico di condivisione del sentimento d’appartenenza alle proprie radici.
La presentazione fornisce sufficienti informazioni geografiche e antropologiche per portare la lettura anche a livello collettivo.
Con la prima immagine in autoritratto, l’autrice ci offre la sua “soglia” dalla quale leggere l’opera: Lei, oggi adulta, stringendo un mazzo di fiori di campo è china sulla “Gerla”. In questa posa, a occhi chiusi, col tatto e l’olfatto del presente, è immersa profondamente nel suo intimo a ritrovare il passato.
Dall’immagine del casolare che con estrema difficoltà regge l’urto del tempo, inizia la rappresentazione di frammenti dell’ambiente alla ricerca dei segni della vita domestica nello spazio montagnoso. Seguono gli incontri con le figure femminili che ci appaiono sospese in un realismo magico, denso di condivisione del pensare e del sentire. La figura maschile è rappresentata nella sua misteriosa alterità. L’autrice l’esplora profondamente, nell’espressione dei volti e nelle pose che con grande dignità sembrano parlarci del loro intimo vissuto; è fondamentale la sapiente scelta della luce che connota l’aura di un’amorosa rivelazione.
Il paesaggio fa sfondo alla vicenda umana narrata con l’accostamento delle generazioni e con il lavoro vaporoso della carbonaia, colto nella sua natura ancestrale. I frammenti simbolici degli interni del casolare narrano la famiglia: con l’anziana che ci appare immersa nei ricordi, col profumo delle bucce d’arancia sulla stufa, col candido lenzuolo steso al sole.
Certamente l’azione artistica dell’autrice ha posto in atto i significati di un mondo segreto di segni che in parte resteranno silenti alla lettura collettiva, ma il fascino della drammaturgia generata dalle immagini suggerirà ad ognuno una propria chiave di lettura.
Ringrazio Paola Fiorini per aver condiviso quest’opera, che tra l’altro ha pubblicata in esemplari fine art numerati di “libro d’autore”.
Silvano grazie infinite per questa bella possibilità. E’ vero come hai scritto che ci sono sottese in ogni immagine segni silenti che possono offrire diverse chiavi di lettura. La mia Lessinia è un frammento di mondo in cui la mia anima trova ristoro.
E’ un lavoro che mi suscita una ridda di sensazioni e sentimenti, alcuni contrastanti tra loro. E questo basterebbe, a mio avviso, per dirlo un buon lavoro. Quando una foto o una serie di foto arriva a toccare i tasti della tua sensibilità, della tua emotività e/o della tua razionalità, credo si possa dire che si tratta di una foto o di un lavoro azzeccato. La nostalgia sottende tutte le immagini che ci mostrano ambienti e oggetti; il piacere dell’abbandonarsi al tepore del sole e al profumo della legna che si consuma nelle carbonaie, nel tentativo di vivere pienamente quel momento e di immagazzinare quante più sensazioni da fermare nella memoria e da rivivere poi una volta tornata in città. Ma anche sofferenza, che trovo nell’espressione dell’autrice nell’autoritratto e che rivedo aleggiare soprattutto nelle foto delle persone. Quando guardo le loro espressioni e le pose, per esempio. Espressioni serie che lasciano trasparire la durezza di una vita non facile e l’aspettativa di un futuro già segnato. Nelle foto degli spazi e degli oggetti trovo una sorta di inquietudine esistenziale in cui si intrecciano la consapevolezza di un mondo ormai avviato verso l’estinzione e il timore che questa estinzione spazzi via un po’ di se stessi perché le proprie radici affondano in quel mondo.
Sono foto che parlano anche di silenzio. Un silenzio che ci parla a sua volta di esistenze e di luoghi vissuti. E’ in silenzio che la donna ci guarda, seria, quasi a volerci leggere nell’anima. In silenzio il carbonaio si ferma a guardare il risultato del suo lavoro e a riposarsi un po’. In silenzio ci guarda l’uomo con le fascine, anch’egli con uno sguardo che penetra nell’anima di chi lo osserva. In silenzio stanno la donna sulla poltrona, l’uomo con la mano sul petto, l’altro con i fiori. Loro non ci guardano e seppur guardino lontano, la loro attenzione non è attratta da qualcosa che accade laggiù, lontano dal nostro sguardo, ma sembra rivolta al loro interno, in una sorta di dolente introspezione. Il silenzio avvolge tutti gli spazi esterni, sembra non muoversi foglia, non un alito di vento né cinguettio di uccelli. Ma silenzio non significa assenza di comunicazione. L’uomo e la natura non hanno bisogno di parole per comunicare. E non tante sono quelle che servono tra uomini.
Quasi tutti gli spazi ripresi sono chiusi, raccolti su se stessi. L’occhio quasi sempre non riesce a spaziare, trova l’ostacolo ora di un gruppo di case, ora di una parete di foglie, del versante di una montagna, di un gruppo di alberi. Uno sguardo che ci costringe a soffermarci analiticamente su ciò che è ripreso, particolari di uno spazio, persone che quello spazio abitano che rimangono come sospesi in una sorta di atemporalità che annulla passato-presente e futuro. Gli spazi interni ed esterni e gli oggetti sembrano essere stati sempre lì e che sempre lo saranno. Sembra che siano sempre stati così e che sempre lo saranno. Nello stesso modo le usanze, le carbonaie, gli aranci a spandere il loro aroma sulla stufa, la raccolta delle fascine. Ma così non sarà, perché tutto finisce, tutto sta finendo e ben lo sanno quelli sguardi e quella postura dell’autrice nella prima foto.
In fin dei conti per essere felici, come dice il cartello in una foto, basterebbe mangiare una pesca con Nini e Gegè. Ma chissà se questo è ancora possibile.
Caro Massimo mi hai lasciata senza fiato e, ti ringrazio davvero per il tempo che mi hai dedicato. Vorrei riproporre una frase che tu hai scritto e che mi ha colpita profondamente: “L’uomo e la natura non hanno bisogno di parole per comunicare. E non tante sono quelle che servono tra uomini.”
Grazie a te, Paola, per questo lavoro.
Cara Paola anche se è vero che la fotografia parla sono importanti anche le parole scambiate che portano alla luce nuovi pensieri. Che bello questo lavoro…il luogo mi riporta alla casetta che ha mio padre in montagna in mezzo ai boschi e dove ogni tanto ho bisogno di tornare. La luce gioca un ruolo molto importante in queste fotografie, una luce laterale come se entrasse senza farsene accorgere. Quante cose si colgono da piccoli dettagli. Tanti complimenti Paola
Cara Cinzia, che bello scoprire per entrambe l’urgenza di ritornare in certi luoghi per ricaricarsi. Grazie per il commento, un abbraccio.
Ricerca molto interessante, dolce, poetica e struggente
Grazie Patrizia per le tue belle parole.
Un itinerario a ritroso nelle proprie viscere che ferisce, accarezza, pungola, risveglia, accoglie.
Ad ogni passo scenari dimenticati, ombre vaghe nella memoria, pensieri sopiti, semplicemente, si destano ridando vita ad emozioni riposte.
Appartenenza, condivisione, partecipazione.
Un canto lirico che avvolge, invita, attrae, conquista.
Un invito che non prevede rifiuto.
C’è da ritrovarsi perdendosi, svestire ciò che impedisce di
riconoscersi.
Incontrarsi nuovamente sotto un’antica luce ed una nuova realtà.
Davvero toccante Paola, grazie.
Massimo
Massimo : )
Grazie davvero
Sono immagini struggenti per chi, come me, ha raggiunto la terza o la quarta “età” . Giovanna La Bua Ass. Imago Palermo
Macchè quarta età! Giovanna vieni in Lessinia e ti assicuro che il tempo si ferma… grazie per il tuo commento
A me colpisce quel narrare disteso: l’onda e la risacca, la spinta e la ritrosia; come una mano che si ferma sulla soglia del movimento che stava per compiere. Non una sospensione vera e propria (ci sono gesti, ci sono azioni, si sentono respiri antichi) ma come un’attesa, il momento che passa con tutta la calma necessaria. Senza fretta, senza preoccuparsi della misura del tempo o delle grandezze aritmetiche con cui lo misuriamo. Qui il tempo è qualcosa d’altro: una letteratura, lo spazio di una memoria (che, ovviamente, non ha misura “misurabile” ma tempi tutti suoi…), rughe come segni di una scrittura del mondo.
Se poi, a questo stesso prisma, cambiamo l’incidenza dello sguardo ecco che vediamo grandezze differenti. Non più l’aritmetica del tempo ma la geografia delle fatiche che hanno costruito questo spazio. Sia esso una casa o un campo o un utensile quotidiano, tutto ciò può essere indicato con una traccia, il disegno di una mappa che contiene la vita intera, le sue tribolazioni, le gioie sommesse (la montagna e i suoi abitanti si nutrono di ancestrale modestia), i piccoli risultati. Uno dietro l’altro, in fila. Come un esercito di sentimenti.
Sono in imbarazzo per quante parole belle in fila.
Un grazie sommesso e un esercito di sentimenti che ha deposto le armi e si tiene per mano.
PaolaF.