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Cosa avranno visto quegli occhi – di Roberto D'Alesio

COSA AVRANNO VISTO QUEGLI OCCHI – ROBERTO D’ALESIO (2012 – 2013)
Opera presentata ai tavoli di Lettura di Portfolio di TriestePhotoFestival 2013

La Risiera di S.Sabba a Trieste fu, durante il periodo di occupazione tedesca tra il settembre del 1943 e l’aprile 1945, prima luogo di smistamento verso i campi di concentramento per detenuti politici, partigiani ed ebrei, e poi essa stessa campo di sterminio unico in Italia dotato di forno crematorio.

In queste fotografie ho cercato di immedesimarmi in un internato che riusciva a vedere, tra angosce e sofferenze fisiche, la libertà appena oltre quelle sbarre e quel filo spinato.

La luce contro il buio, un uccello libero di cercare il cibo per sopravvivere, per vivere la vita che tutti avrebbero diritto di provare a vivere. Le celle strette, i latrati dei cani, il fetore di quel fumo denso che fuoriesce dalla ciminiera.

Il freddo, i cieli cupi nella mente di un uomo che spera di salvarsi e allo stesso tempo preferirebbe morire piuttosto di restare ancora un istante in balìa dei suoi aguzzini.

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8 commenti

  1. “Cosa avranno visto quegli occhi” di Roberto D’Alesio è un’opera animata da un’idea artistica per la riflessione umanitaria condotta su un campo di sterminio. Con quest’opera chiudiamo questa sguardo intensivo sulla fotografia realizzata dai giovani fotografi, nel senso che non saranno più in sequenza ma auspico che i nostri giovani amici non manchino di inviare i loro lavori per condividerli qui su Agorà Di Cult. Tra i temi che spesso si trovano nei portfolio dei giovani fotografi ci sono i campi di concentramento nazisti. La Risera di S. Sabba a Trieste è un sito da visitare perché, se si ha la capacità di immaginare, è in grado di comunicare le atmosfere e quindi i sentimenti di chi vi è stato recluso. Il lavoro di D’Alesio, come dice il titolo, cerca proprio questa rivisitazione di vissuti. Lo compie in modo efficace con linguaggi differenti e con l’interpretazione espressiva delle luci. Vediamo dal frammento, al campo medio e lo scenario sempre rappresentati in funzione simbolica. Ecco che sono rappresentati: la reclusione violenta, la durezza del regime carcerario, il senso di essere impotenti davanti all’apparato politico militare che imprigiona, uccide e distrugge le prove con il forno crematorio. Solo il graffito sul muro ci parla in modo diretto di chi vi è passato e quell’ultimo sguardo estremo verso la luce prima di diventare fumo. L’opera è stata realizzata con grande sensibilità narrativa e riesce a comunicare il complesso insieme di sentimenti che questo sito promuove. Complimenti vivissimi all’autore.

  2. Ci si sente serrare la gola. Nel guardare queste fotografie manca l’aria, proprio come mancava a chi era chiuso in quel luogo, costretto a sopportare l’indicibile per cercare di sopravvivere.
    C’è in tutta la sequenza, sottolineata dalla scelta delle inquadrature e dal colore, un gelo profondo. Si sente, come un dolore fisico, l’assenza di umanità. E al vedere quelli scarponi proviamo una specie di sussulto. Guardandoli ci par di udire la cadenza rumorosa del passo, che calpestando chi incontra lo riduce a niente.
    Nella visione si prova anche un desiderio di ribellione, si rafforza in noi la determinazione ad adoperarci perché queste terribili atrocità non si ripetano mai più.
    Grazie all’autore per aver tenuto desta nella nostra mente l’idea che il dolore sofferto da tanti
    non può e non deve essere dimenticato.
    Orietta Bay

  3. Il lavoro di Roberto D’Alesio è di quelli che restano nella memoria, con le immagini che arrivano dure e senza giri di parole direttamente allo stomaco.Come fotogrammi di un incubo che vorremmo allontanare ma che ci costringono a restare a guardare. Le foto sono compositivamente scarne , ma per questo ancora più efficaci e ci obbligano a pensare alla terribile follia dell’uomo. Grazie a Roberto per questo bel lavoro.

  4. Appena vedi queste immagini ti viene voglia di chiudere gli occhi e dimenticare. Ma non ci riesci. Vieni catapultato in quei luoghi; ti senti gelare e ti manca il respiro. Un lavoro che ci obbliga veramente a pensare e non dimenticare ciò che è accaduto. Grazie

  5. Lo scopo di queste immagini è proprio quello di non dimenticare per non ripetere.
    Per ottenere questo scopo non potevo semplicemente fotografare l’edificio teatro delle nefandezze, ma ho dovuto “farlo nostro”, come se reclusi in quel luogo ci fossimo stati tutti noi
    Grazie per le vostre splendide e prestigiose parole.

  6. Trovo sia un lavoro approssimativo e generico, a vedere le sole immagini non riesco a provare lo stato d’animo, sicuramente meglio descritto dal testo. Purtroppo è questa la mia impressione, ho visto altri lavori sempre sul tema “lagher” molto più efficaci, ( ma è sempre solo la mia impressione ). Forse solo la penultima della torre fumante possiede un certo pathos emotivo, le altre non riescono a comunicarmi un gran che 🙂

  7. Già il titolo “Cosa avranno visto quegli occhi” ci fa presagire che saremo impegnati ad elaborare una visione personale di quello che l’autore ci vuole trasmettere attraverso le sue immagini, perchè ognuno di noi ha nel suo bagaglio culturale ricordi di racconti e di frammenti visivi di quel terribile periodo storico.
    Le immagini ci conducono in un itinerario dove il cielo cupo ci sospende in una realtà fatta di negazione della libertà fisica ma anche spirituale,dove impigliati in quel filo spinato o scritti su quel selciato o cadenzati dagli scarponi rimangono brandelli di un’umanità violata. La porta semi aperta, la soglia, sono moniti perchè nessuno debba più varcarle.
    Complimenti all’autore, che con la sua capacità di sintesi ci ha trasmesso emozioni e costretto a riflettere, senza inquinare le nostre conoscenze con immagini scontate e retoriche.

  8. Concordo con Gianni, ho abitudine di guardare prima le foto poi leggere la presentazione ,una mia abitudine per non farmi influenzare.
    Il testo scritto molto profondo , mi emoziona,ma non riesco a riscontrarlo con le immagini metaforiche di simbolismi retorici di un ambiente. la presenza umana la vedo e la sento in una unica immagine, quella degli scarponi; una immagine forte pesante che calpesta il suolo con aggressività che lascia impronte sul suolo e nella storica memoria.

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