Io amo l’Italia, di LEONARD FREED a cura di Fausto Raschiatore

Io amo l’Italia, di LEONARD FREED – a cura di Fausto Raschiatore

Fotografia di alto profilo a Mestre, al Centro Culturale Candiani. Oltre cento immagini “italiane” in b/n realizzate da Leonard Freed, tra gli anni Cinquanta del secolo scorso e i primi anni del nuovo millennio. Un all’allestimento – IO AMO L’ITALIA – che da qualche giorno ha chiuso i battenti, curato da Enrica Viganò (Admira), che è un ringraziamento postumo all’Italia del maestro per l’ospitalità che ha sempre avuto nel nostro Paese e un omaggio dell’Italia al grande fotografo. Racconta, Freed: “Facevo l’autostop, senza fare niente di particolare. Dormivo all’aperto in ostelli della gioventù e perfino in prigione. Dopo qualche tempo tutto questo viene a noia. Infatti mi annoiavo. Una volta mi sono trovato in un negozio insieme a una donna. Lei si è messa a sfogliare un libro di H. Cartier-Bresson. Allora ho pensato: è bello. Sembra si possano fare cose molto interessanti con la fotografia. Invece di diventare pittore, che è un lavoro vero e proprio, farò piuttosto il fotografo”. “Io amo l’Italia,” è un evento fotografico proposto per far conoscere l’opera di Freed e in particolare, quella parte dell’opera dedicata all’Italia. Amore profondo per il nostro Paese che nasce da un viaggio in Europa e prende forma dai primi scatti a Little Italy che si sviluppa in oltre mezzo secolo di studio della natura umana.

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“Fondamentalmente penso che ci siano fotografie ‘informative’ e fotografie ‘emotive’. Io non faccio fotografie informative, non sono un fotogiornalista, sono un autore, non sono interessato ai fatti. Io voglio mostrare atmosfere”. Freed cammina per le vie del mondo, tra la gente, alla ricerca di opportunità visive. Si alimenta di momenti speciali, che coinvolgono luoghi, persone, civiltà, un desiderio innato di sapere, sentire, capire. Il tempo, le storie, le culture e i popoli, le atmosfere a tutti i livelli e a tutte le latitudini, sono le variabili della fotografia di Freed. E’ stato reporter Magnum. Non d’assalto ma riflessivo, attento, che si esprime in libertà. La sua poetica espressiva è la sintesi di meditazioni, percezioni, letture dei contesti. Egli con il suo obiettivo penetra nell’intimo degli uomini, fino a carpirne le diverse sfaccettature sia da un punto di vista sociale che antropologico e culturale. Sono poche le sue fotografie senza la figura umana. Egli esprime una fotografia soggettiva, con tratteggi contemplativi, collocabili tra il misticismo e la meditazione. Cerca atmosfere, sensazioni, motivazioni per riflettere e per curiosare negli animi delle persone.
“Io sono un po’ di tutto, come capita nei sogni, in cui a volte sei una cosa a volta un’altra. Sono di destra e sono di sinistra. Sono religioso e antireligioso. Amo e odio le donne. Tutto mi attraversa come in sogno. Sono simile a uno studente curioso, che vuole sempre imparare. Per essere in grado di fotografare, prima devi farti un’opinione e prendere una decisione. Poi, quando stai fotografando, sei immerso nell’esperienza e diventi parte di ciò che stai fotografando. Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare a ciò che lui pensa, essere molto amichevole e neutrale”. Da una intervista del fotografo americano pubblicata da “Sguardi”, rivista italiana di fotografia e viaggi (gennaio, 2003).

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La mostra è una stimolante proposta per documentare e dare la giusta dimensione all’amore del maestro verso il nostro Paese. Attraverso la sua macchina fotografica usata magistralmente e guidata da un’istintiva comprensione dell’uomo e della sua natura, scatena quello che è il suo maggior interesse: l’attenzione per l’uomo e per le motivazioni del suo essere. Sostiene testualmente: “La mia macchina fotografica è il mio lettino dello psichiatra”. Per capire ancora di più il suo lavoro in Italia basta ascoltare le sue riflessioni: “La cosa che sto cercando di mettere nelle mie fotografie è l’elemento del tempo. Il tempo passa e noi abbiamo bisogno di esserne consapevoli. La fotografia ci può dare questa consapevolezza”.…“Voglio una fotografia che si possa estrapolare dal contesto e appendere in parete per essere letta come un poema.”

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Leonard Freed (USA, 1929/2006), nasce in una famiglia ebrea di origine russa. Giovane manifesta una vocazione per la pittura. Studia disegno e grafica. Nel 1952 parte per l’Europa; vi rimane due anni visitando per diversi paesi. In Italia che avviene l’innamoramento che segnerà la sua vita professionale. Torna negli USA consapevole che la fotografia possa essere strumento e mezzo per indagare “il sociale” e la natura umana. Studia iconicamente le proprie radici ebraiche, prima a New York e poi in giro per il mondo, nel 1984, le immagini saranno raccolte nel libro. Nel 1958 si trasferisce in Olanda. Nel 1963 rientra negli USA, si lascia coinvolgere dal tema della discriminazione razziale. Segue la marcia su Washington e i suoi protagonisti, ma anche la vita quotidiana degli afroamericani nel quartiere nero della sua Brooklyn. Dalla documentazione del movimento per i diritti civili nasce nel 1965 il libro Black in White America: “Volevo che fosse duro, così da rispecchiare la mia esperienza”. All’inizio degli anni ’70 si dedica a quello che lui stesso ha definito uno studio sociologico sulla Polizia: “Volevo capire che cosa fanno e perché sono indispensabili. I poliziotti sono dei proletari. Volevo essere coinvolto nelle loro vite”. Il risultato è un reportage approfondito che verrà pubblicato da importanti testate in tutto il mondo e in mostre personali e collettive a lui dedicate.

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