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Il mondo di Gregory Crewdson – di Federica Cerami

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Il mondo di Gregory Crewdson

di Federica Cerami

 

Da piccola mi capitava di rifugiarmi nelle mie fantasie colorate e piene di vita, tutte le volte in cui c’era qualcosa che non mi andava giù del mondo reale, quello degli adulti, per intenderci.

Vi è mai capitato di sentire il desiderio di costruirvi una zona di comfort mentale alla quale accedere per poter raggiungere una momentanea salvezza?

Interagire con la propria emotività, dare spazio al proprio pensiero creativo, ascoltare la propria fantasia: non so se queste possano essere le uniche premesse utili per diventare un artista, di certo, so che sono una buona base per provare a vivere con più autenticità il proprio percorso esistenziale.

Un’illimitata produzione di immagini mentali e le corrispettive emozioni fungono da bacino di “materiale umano” al quale attingere quando si intende conoscersi meglio e cercare di raggiungere uno stato di benessere.

In ogni immagine creata, infatti, proiettiamo, in modo più o meno consapevole, le parti del nostro mondo interiore che non riusciamo facilmente a portare alla luce.

Si dice, spesso, che ogni fotografia è l’autoritratto del fotografo: io credo, in tal senso, che anche le immagini che scegliamo di conservare abbiano una analoga funzione.

 

 

La prima volta in cui, tanti anni fa, il mio sguardo ha incontrato le immagini di Gregory Crewdson, mi è sembrato di sognare: dall’altra parte del mondo esisteva un poetico e struggente visionario che, come me, usava la fotografia come strumento di autoconoscenza e consapevolezza.

Scoprire di avere una sorta di complice, inconsapevole, di questo mio gioco mi ha spinto, poco dopo, a volerne sapere di più del suo lavoro e di questa incredibile possibilità di entrare nella fotografia per entrare, contemporaneamente, anche dentro me stessa.

Crewdson nasce a Brooklyn nel 1962, dove oggi continua a vivere e lavorare.

All’età di dieci anni il padre, di professione psicoanalista, lo porta a vedere una mostra della fotografa Diane Arbus, ed è proprio in quel contesto che egli sente il desiderio di diventare, da grande, un fotografo.

Il lavoro di ricerca della Arbus così intimo e struggente e la professione del padre, orientata ad indagare il non detto e l’inconfessabile, diventano due stimoli molto potenti che entrano nell’animo di Crewdson e muovono in lui il desiderio di arrivare ad un suo personale intreccio delle parti.

La fotografia di Credwdson non si limita, infatti, a riprendere le linee del mondo e non ha bisogno di fermare il tempo dell’umanità: funziona esattamente al contrario.

Lo sguardo compie un percorso diretto, che, dal mondo esterno, punta dritto all’interno del fotografo, nel suo animo, fino ad arrivare alle radici di un suo malessere e poi, nuovamente, viene fuori attraverso la messa in scena del suo paesaggio emozionale.

 

 

Le fotografie di Crewdson sono, dunque, delle liriche proiezioni del suo lato oscuro, quel “non detto” che era materiale di lavoro di suo padre e che in lui diventa materiale con il quale costruire le sue scene per dare luce e forma ai suoi pensieri oscuri.

La sua fotografia viene annoverata nel genere di staged photography, ovvero una immagine progettata per dare forma ad una idea, una visione, un intimo sentire, una possibilità, cioè, di parlare di se stessi, a se stessi e al mondo, evitando, però, il difficile ausilio delle parole.

Ogni fotografia di Crewdson sembra essere un fotogramma di un racconto cinematografico, un preciso punto di una storia in cui sta per accadere qualcosa e talvolta, il punto in cui qualcosa è già accaduto e nulla sarà più come prima.

Ogni immagine congela il tempo in una realtà che parla di solitudine, di angoscia esistenziale, di incomunicabilità.

L’agognata felicità, che sognavamo da bambini, sembra essersi dissolta nel nulla, per far posto a un inesorabile crepuscolo senza fine.

Osservando i suoi scatti, stampati sempre in grandi dimensioni, si comprende quanto tutte queste rappresentazioni siano il frutto di costruzioni estremamente meticolose della scena, del posizionamento di luci e dei personaggi, degli “still life” complessi e totalmente pianificati, dove niente è lasciato al caso e tutto viene regolato dalla determinazione maniacale nel lavorare per raggiungere esattamente ciò che ha precedentemente previsualizzato nella sua testa.

Non importa quali mezzi tecnici siano necessari per raggiungere il risultato o se occorrano, attori da dirigere, truccatori, comparse o interi teatri di posa in cui costruire complesse scenografie: le sue fantastiche realizzazioni fotografiche si avvalgono spesso anche di un direttore della fotografia che collabora al suo fianco come una sorta di angelo protettore.

 

 
Crewdson trova la sua ambientazione ideale nella provincia americana che ama avvolgere in atmosfere surreali, con riferimenti cinematografici del simbolismo misterioso ed inquietante e con influenze pittoriche e letterarie, in particolare di Edward Hopper e Raymond Carver.

Ne risulta un’estetica dal forte impatto, che mette il pubblico nelle condizioni di non poter scegliere di stare al di fuori dalla scena.

Davanti ad una sua fotografia, singolo fotogramma di un suo racconto intimo, non ci si chiede nemmeno più se la rappresentazione sia reale o frutto di una ricostruzione: ci si lascia andare, senza freni, alle emozioni che salgono a galla.

Siamo di fronte ad una immagine che prende a prestito il mondo reale per raccontare il proprio mondo interiore e, in tal senso, la magia di questa rappresentazione è nel constatare che parla sempre anche di ognuno di noi, con i nostri affanni e le nostre impossibilità a raccontarci così come realmente siamo.

Si viene fuori da queste visioni incantate con la strana idea di aver siglato un patto con il fotografo: ci siamo raccontati frammenti di vita tristi e oscuri, che mai avremmo raccontato ad anima viva.

Il mio invito a tuffarci nelle immagini di Crewdson diventa, così, un invito a lasciarsi andare a quel meraviglioso viaggio che è la scoperta di noi stessi.

Abbracceremo, in questo viaggio fotografico, sia le nostre parti in luce che quelle in ombra, sia la nostra parte bambina, che quella troppo adulta: per quanto lungo e difficile sarà questo viaggio, fin dalla prima immagine, sapremo di avere la garanzia di poter toccare la nostra bellezza e di venire fuori arricchiti umanamente e spiritualmente.

Federica Cerami
 

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5 commenti

  1. Sia la benvenuta Federica Cerami, neo candidata alla Figura Operativa FIAF “Lettore della Fotografia”, che con questo post avvia il suo Percorso su Agorà Di Cult.
    I percorsi dei candidati sono scelti da loro stessi, perché questo deve essere il loro modo di comunicare ciò che ritengono importante nella cultura fotografica.
    Con questo metodo l’appassionato di fotografia ha modo di interpretare la Figura Operativa FIAF caratterizzandola con la sua unicità.
    L’autore scelto per il primo studio, Gregory Crewdson, è già stato presentato nel 2014 su Agorà Di Cult da Antonino Tutolo; questo riprendere l’attenzione sull’opera di uno stesso autore è molto positivo perché si allarga lo studio con nuovi punti di vista.
    Complimenti a Federica Cerami per la scelta delle immagini tutte rivolte a sentimenti provati dalla donna nell’intimità della vita coniugale e domestica.
    La sua lettura che rimanda al proprio e al nostro vissuto, ci rende molto vicina la ricerca di questo fotografo che con la finzione va in profondità nella nostra vita quotidiana.

  2. Un autore molto interessante che Federica Cerami ci ha ben presentato. Come descritto nel testo presentatoci, insieme a molti fotografi statunitensi è attento alla pittura americana, in particolare di Edward Hopper (1882-1967), con il quale condivide stati d’animo, in particolare solitudine ed isolamento ma anche la sospensione temporale. Guarda altresì ai pittori europei. Mi riferisco alla Confraternita dei preraffaeliti, corrente artistica inglese nata nel 1848 e definibile come la conseguenza del romanticismo e la trasposizione pittorica del decadentismo. A tal proposito non posso non considerare il paragone tra l’Ophelia (1851-1852) di Sir John Everett Millais e l’Ophelia (2001) di Crewdson. Negli ultimi anni della sua lunga carriera, come spesso accade, ha trasformato il suo percorso sia sul piano produttivo che artistico. Nella serie di fotografie, in bianco e nero, dal titolo “Sanctuary” (2009) riprende il parco abbandonato degli studi di Cinecittà vicino a Roma. Secondo il mio parere, iniziamo a percepire un suo cambiamento di scena, molto più vicino alla metafisica con ambienti vuoti, silenziosi e surreali, un pò come le “Piazze d’Italia” di Giorgio De Chirico (1888-1978), ma rimane molto chiaro il suo pensiero: realtà e finzione, naturale e artificiale, bellezza e degrado.

  3. Le immagini ci catturano, si sa! Quelle di G.C. sono magnetiche a tal punto da essere le immagini fotografiche che trattengono l’osservatore più a lungo di qualsiasi altre.
    Questo è un dato di fatto che ci deve far pensare!
    Personalmente è l’autore contemporaneo che prediligo, convinta come sono che quello che conta è sempre e solo la capacità espressiva.
    Le opere di G.C., complici anche le grandi dimensioni, ci aprono un varco, consentendoci, novelle Alice nel paese delle meraviglie, di oltrepassare quel mondo reale che ci imprigiona in una realtà falsa e strumentale.
    La realtà è quella che l’autore ci porge, bella o brutta che sia! Noi siamo quello che vediamo in queste immagini.
    Un susseguirsi di “attimi perfetti” come li definisce l’autore.

  4. per chi ha interesse per il cinema d’autore americano questi fotogrammi sono già stati visti e rivisti, stesse luci, colori, scene. La sola differenza che in questo caso le immagini sono ferme, (come morte) le altre sono in movimento (come vita). Guardandole mi emozionano allo stesso modo di quando apro il frigo e alla luce del neon vedo quello che c’è dentro.

  5. Le potenti immagini di questo autore contemporaneo ci richiamano un suo compaesano artista pittorico del secolo scorso: Edward Hopper, la solitudine, la desolazione di ampi spazi, quindi il tema affrontato da Hopper non ha smesso di essere presente, ma semmai si è arricchito di un ulteriore disagio. Ci sono segni in ogni fotogramma che acuiscono la solitudine che non rimane fine a sè stessa ma si insinua con varie variabili per segnalarci che il problema non è risolto ma è sempre più pesante, sia che si affronti la tematica femminile, quella di coppia o della vita in generale.

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