IL RAPIDO CONFINE – di Carlo Delli
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Cronache Di Cult
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Tijuana-La Paz: 1.600 chilometri di Baja California. Una sola strada, centinaia e centinaia di croci, tombe, lapidi, cappelle colorate, fantasiose, addobbate, come se la morte fosse… una festa!
Sole tropicale. Luci e ombre in fortissimo contrasto. Un confine netto e improvviso tra luce e ombra, tra velocità e immobilità, tra vita e morte.
Tutti sfrecciano velocissimi, ben oltre il limite, anche i mastodontici camion… e allora le croci diventano inutili, le croci aspettano altre croci…
Sento dire spesso che siamo una specie molto intelligente. Dicono che siamo superiori agli animali perché abbiamo le religioni, gli stupidi coyote non le hanno…
Carlo Delli
IL RAPIDO CONFINE
(i coyote non colorano il deserto)
di Carlo Delli
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Presentazione di Attilio Lauria
Giunti all’ultima croce rispolverate il Seneca delle “Epistole morali a Lucilio”, provate ad interpretarloin senso inverso, ed ecco una prima chiave di lettura di questa storia di coyote & confini: “Perché ti stupisci, se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso?”. Ovvero, se c’è chi pratica il viaggio come evasione, per fuggire da se stesso almeno un po’, per Carlo Delli è una preziosa opportunità di riflessione dalla distanza di nuovi stimoli, che affida alla fotografia il compito di fissare gli spunti di un’erranza interiore. Da prolungamento genetico che identifica lo stereotipo stesso del turista, la macchina fotografica diviene così il medium di una percezione meditativa, rendendo immediatamente visibile un percorso culturale, diverso a seconda che si veda ciò che già si conosce, o ci si ponga dialetticamente con quanto ci circonda.
Un approccio che al di là del valore linguistico o formale, rende la fotografia comunque un pretesto: in questo caso, per indagare il nostro rapporto con la morte. In particolare, con la sua forma improvvisa e violenta: soggetti di questa serie di foto sono infatti le edicole funerarie della “mala morte”, quella per incidente, che simili a pietre miliari punteggiano le strade messicane, come questa percorsa da Carlo Delli per 1.600 chilometri fra Tijuana e La Paz. Una delle strade della vacanza dove la morte non va in vacanza, sebbene sia “strano / poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano”, proprio lì e proprio quel giorno, come in quella canzone generazionale che Carlo cita nelle immagini della strada che corre “lunga e diritta”1.
Coloratissime e zeppe di oggetti, in bilico fra sacro e profano, sono così tragicamente onnipresenti da disegnare una mappa alternativa del territorio attraverso cui ci si potrebbe persino orientare: l’incrocio 200mt dopo l’animitas di Juan, il motel di fronte l’animitas col sombrero e così via. Già, perché è questo il nome con cui i piccoli tempietti sono conosciuti in tutto il Sudamerica, “animitas”, piccole anime, una definizione che racchiude già tutta la distanza con la nostra cultura occidentale. Che è poi l’oggetto della riflessione di Carlo, che trova espressione in una fotografia relazionale dalla forte connotazione umanista.
Definita impietosamente “liquida”2, preoccupata di inseguire modelli effimeri come l’ossessione estetica di una gioventù ad oltranza, la società contemporanea occidentale ha reso il tema della morte un tabù di cui è difficile parlare, improntando il senso del vivere a quel medesimo mantra fotografico dell’hic et nunc. Una società per molti versi analgesica, che in questo grande rimosso sembra somigliare al palazzo eretto dal padre per Gautama Buddha, luogo dal quale era bandito ogni segno di sofferenza o di corruzione del corpo, e che fa scrivere ironicamente a Baudrillard che “al giorno d’oggi non è normale essere morti (…). Essere morti è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile”3.
Di un diverso rapporto con la morte, decisamente più sereno, ci parlano invece le animitas ritratte da Carlo, espressione di quella capacità di conciliazione della vita e la morte della cultura messicana, che da sempre affascina studiosi e intellettuali. Un rapporto che molto deve anche all’arte, la cui insistita allegoria della morte ha contribuito a renderne viva e familiare la presenza, favorendo quel dialogo sociale rappresentato dagli oggetti che affollano le animitas.
Fiori, candele e fotografie, com’è uso aspettarsi, ma anche quei più disparati oggetti colti dalle visioni laterali di Carlo, dei quali è pressoché impossibile tentare una decodifica: se alcuni sono legati alla vicenda tragica che ricordano, da una targa a un parabrezza frantumato, altri esprimono la volontà di tenere viva la relazione con il defunto. Feticci, che per questa loro funzione ricordano i “linking objects”4 di Vamik Volkan, ai quali spesso si mescolano dei veri e propri ex-voto, rivelando la natura complessa di questi cenotafi: sebbene le spoglie delle “vittime del destino” siano sepolte lontano, nei cimiteri, la pietas popolare vuole che le anime si aggirino ancora nei luoghi in cui hanno perso la vita. Ecco perché talvolta diventano luoghi di venerazione popolare, assumendo un’ulteriore funzione apotropaica.
Ma indipendentemente dal senso antropologico c’è comunque una dimensione estetica delle animitas, che pur risultando da un aggregato di funzioni diverse, non corrisponde al semplice stratificarsi del contributo parziale di ciascuna. Ed è quanto sottolineato dal lavoro di Carlo Delli, che nella serialità della raccolta tematica ne enfatizza la dimensione installativa, conferendole il senso di un’opera collettiva a cielo aperto ispirata al perdurare della traccia. C’è infatti una relazione metaforica fra la durabilità degli oggetti raccolti nelle animitas, la cui natura è fondamentalmente quella del memoriale, e la labilità della memoria stessa: come quegli oggetti, che esposti alle intemperie sono destinati a disfarsi in un tempo limitato, cosa rimane di noi e della nostra identità dopo la morte? Nel tempo, che agisce su di noi con le medesime dinamiche di quelle intemperie, i ricordi e i volti stessi delle persone diventano tracce dai contorni sempre più sfocati, affidando a noi il dovere della testimonianza: “Non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo”5, scrive un’altra sudamericana, che in memoria della figlia ha eretto un libro a monumento.
E a giudicare dalla proliferazione anche alle nostre latitudini di cimiteri stradali diffusi, se non una confidenza con la morte, è la necessarietà della memoria, il post mortem, a ricongiungere le due culture: la nostra Spoon River è certamente meno colorata e imprevedibile, ma anche qui gli oggetti raccontano delle passioni e degli affetti delle persone defunte, chiamando a raccolta la comunità di quanti restano nel tentativo di allontanare l’oblio.
Dunque “Il rapido confine” si propone come una riflessione antropologica su come ciascuna società plasmi le proprie forme simboliche, e insieme filosofica sulle declinazioni del concetto di confine, coniugandosi con una ricerca estetica che passa per quelle visioni oblique che consentono a Delli di sfuggire da una frontalità documentaria. Senza mancare di affidarci un’amara notazione personale: al di là di ogni declinazione, intorno a questi moniti si continua incuranti a sfrecciare.Dev’essere proprio vero, i coyote non colorano il deserto!
Attilio Lauria, dicembre 2018
Francesco Guccini, “Canzone per un’amica”, 1967
Zygmunt Bauman, “Modernità liquida”, 1999
Concetto ripreso recentemente anche dall’Arcivescovo Vincenzo Paglia, che in un’intervista di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera del 4 dicembre 2018 riconosce che: “La morte è uno scandalo. Una domanda che cerchiamo di nascondere. Non vogliamo pensarci, tanto che ci auguriamo di morire all’improvviso, nel sonno, senza prepararci. Anche nella predicazione cristiana si assiste a un occultamento delle cose ultime. Non affrontiamo il tema, o lo facciamo con parole incomprensibili, un gergo clericale scontato e superficiale che non parla più né alla mente né al cuore.”
Vamik Volkan, “Oggetti di collegamento”, 1972
Isabel Allende, “Paula”, 1995
N.B.
Di questo lavoro è disponibile per Circoli e Associazioni una mostra di 24 stampe con cornice 65×50.
Ho trovato molto interessante il post di Carlo Delli “il rapido confine”, che non é soltanto quello che separa il passaggio tra Stati Uniti e Messico, è la linea di demarcazione tra sacro e profano, tra luce e buio, tra la vita e la morte.
Complimenti all’autore per come ha presentato la morte offrendo la visione di una lunga strada piena di croci, ricordi e sofferenze, con una riflessione sulla fragilità della vita quando questa non viene profondamente rispettata, ed un ringraziamento ad Agorà di Cult per gli interessanti post che continuamente propone. Cosimo Stillo
Grazie del commento Cosimo. Per curiosità ti rivelo mi sono “limitato” ad esplorare la parte sud della Baja California (comunque 600 km), quindi lontano dal confine con gli USA, ma il senso che hai messo in rilievo rimane inalterato.
Quel viaggio in Baha è stato una vera sorpresa sia per me che Carlo.
Io cercavo l’arte messicana e l’ho trovata soprattutto nella vita quotidiana: loro fanno spettacolo e arte sia della vita che della morte.
Ho ritrovato i colori e le acconciature floreali precolombiane di Frida Khalo anche nei piccoli cimiteri viventi,
Carlo ha scoperto questa arte viva nelle animitas lungo le strade infinite della Baha e ne ha fatto uno dei suoi capolavori.
E’ riuscito a far emergere l’allegria, l’amore e la bellezza anche nella morte.
ciao carlo
un abbraccio virtuale in attesa di vederci
Bravissimo carlo, le foto sono straordinarie.
Ottimo lavoro, spero che il bambolotto non ti abbia stressato con la sua voce.
Per fortuna non lo ho mai sognato, ma era davvero inquietante, ed è stato lui a farmi cambiare lo scopo del viaggio, che era tutto un altro scopo. Occorre essere pronti ad ascoltare quello che i luoghi ti dicono, perché come spiego e dimostro nei miei workshop (iniziando proprio dalla fotografia) anche i luoghi hanno un’Anima, vera, reale, che può interagire con chi li frequenta, soprattutto cercadola quest’anima, e perché no, anche per fotografarla…
“Il Rapido Confine”, un lucido reportage ai margini della vita che scorre veloce lungo la principale arteria stradale messicana. Nella società odierna dove i ritmi sono ormai forsennati, quasi a non volerci far riflettere su quello che è oggi, ma sopratutto su quello che potrebbe il “non essere” domani. Ecco, le foto di Carlo ci obbligano ad uno STOP. Ci obbligano a riflettere, a dare il giusto valore a ciò che la vita ci offre oggi, ad andare SLOWLY, ad alzare il piede dall’acceleratore della vita ed anche da quello della nostra auto. Sono come un muro che ci impone una seria riflessione sulle differenze tra la società utilitaristica nella quale viviamo e quella umanistica che mette al suo centro l’uomo e non il denaro. Una dimensione della quale dovremmo riappropriarci. Grazie Carlo….
Grazie Luca! Non dobbiamo aspettarci che le nostre foto veicolino quello che vorremmo, ma quando accade, come in questo caso, non nego la felicità di suscitare le mie stesse riflessioni. “Alzare il piede dall’accelleratore della vita” è poi una immagine davvero efficace e pertinente, LA USERò, grazie anche di questo.
Il titolo di una conferenza che avevo organizzato anni fa era “Nessuno muore più di morte naturale”
La colpa è sempre da attribuire a qualcuno, spesso una cura sbagliata. Accompagnata spesso da frasi tipo ” Morto per una banale influenza”. L’influenza non è mai una malattia banale!!!!!
Anche la parola morte e proibita, sostituita da ” E’ venuto a mancare, è salito al cielo, non è più tra noi, ci ha lasciato………”. In Messico muoiono semplicemente, consapevoli che nessuno è eterno.
Muoiono dopo avere provato a vivere nella maniera più allegra possibile.
Quello che Carlo ha fotografato avviene anche da noi, le nostre strade sono piene di croci, ignorate.
Anche a Fabio grazie per aver recepito e voluto esprimere quel che volevo dire. E questo che dice è profondamente vero, nel senso che è proprio dentro la nostra mente, la non accettazione della morte vista quasi come uno SCANDALO. E niente di più in linea con ciò che accade in questo periodo: non si accetta la morte e si richia di mettere alla fame e alla disperazione decine e decine di milioni di persone solo in Italia, dove ogni anno muiono normalmente 600.000 persone l’anno.
Molto interessante questo lavoro, tocca il tema più grande dell’uomo: il rapporto fra la vita e la morte, il rapporto antropologico fra la luce e l’ombra.
Una strada lunga e spoglia per pensare, una strada di terra rossa e polvere dove piccoli segni ci ricordano chi realmente siamo.
Veramente un ottimo lavoro Carlo,è il valore del ricordo di queste persone morte, che possiamo vedere rappresentato in questi piccoli tempietti che mi ha colpito molto. Sono immagini che suscitano profonda emozione. Complimenti
Avevo avuto l’occasione di vedere questo lavoro al nostro Circolo Fotografico a Pisa, in una sera in cui ti eri offerto di venire a mostrarlo ai ragazzi del corso base. Non ho la Tua caratura fotografica e artistica per esprimere un giudizio. Ti parlo quindi dei miei pensieri…fotograficamente parlando mi piacciono i punti di ripresa vari e il fatto che dietro ogni foto mi vengano in mente alcune domande. La prima riguarda le storie di vita di quelle persone, chi erano e cosa facevano. La seconda riguarda la casualità di interrompere in modo brusco le proprie esistenze in un posto che probabilmente con le loro vite c’entrava marginalmente. La morte, quando è arrivata, non ha chiesto il permesso per presentarsi lì. La terza è, a chi servono quelle lapidi e croci, in mezzo al nulla?
Poi c’è il discorso filosofico, e qui sono sicuramente ancora meno titolato per parlare…ma ormai ci sono 🙂
Diversamente dai coyote forse non siamo più intelligenti, cerchiamo solamente di dare un senso ai nostri giorni che, nella maggior parte dei casi, non è la sola ricerca del cibo per sopravvivere o di un partner per riprodursi. Avere religioni (per chi crede) ci rende più intelligenti dei coyote? Qui si apre un mondo, la mia risposta secondo me è no..ma non credo sia l’argomento della discussione.
In ogni caso, queste tue fotografie, sono uno stimolo per pensare e, dal mio punto di vista, oltre al valore estetico, hanno raggiunto lo scopo.
Un abbraccio e a presto (arriveranno tempi migliori)
Un racconto asciutto, senza orpelli, che restituisce appieno il sottile confine fra la vita e la morte.
Per fortuna non l’ho mai sognato quel bambolotto, temevo di farlo! Era davvero inquietante ed È STATO LUI a farmi cambiare lo scopo del mio viaggio, che era tutt’altro scopo. Occorre essere pronti ad ascoltare quello che i luoghi ti dicono, perché anche i luoghi hanno un’anima, vera, reale, lo spiego e lo DIMOSTRO nei miei workshop, iniziando proprio dalla fotografi. E parla soprattutto a chi quest’anima la cerca, anche per fotografarla…
Sempre un piacere seguire il lavoro eclettico, trasversale e profondo di Carlo, artista e fine narratore, costantemente alla ricerca di emozioni da raccontare e, più spesso, da rielaborare rinnovandosi.
Ho avuto modo di vedere queste foto a una serata di Carlo. Dopo la prima emozionante foto del bambolotto col camion che sfreccia sulla strada e quella con i cartelli di avvertimento, le altre hanno un po’ mitigato il senso di struggimento che provoca il pensiero della morte. Cos’hanno di diverso? I colori! Mi hanno riportato alla mente il “Cimitero allegro” di Sapanta nel Maramures. Anche quello è un luogo che richiama la morte, ma in modo molto colorato.
E’ vero, i coyote non colorano il deserto.
Ciao Carlo
Grazie MArio! Hai evidenziato un aspetto importante nella narrazione: la bambola è diverso da tutte le altre cose che vediamo a ricordo degli incidenti, ci mette in guardia, vi inquieta ed un aspetto assai strano se ci pensiamo bene è che le foto successive come dici tu “mitigano” l’ansia…. eppure sono tutti ricordi di morti violente!! Centinaia di morti. Ed ecco che torna il senso della morte dei messicani cheNOI sentiamo ISTINTIVAMENTE più leggera perché piena di colori, di immagini e “cose” da osservare. E’ quasi come se l’istinto sostituisse l’ansia con la curiosità…. siam fatte/i così…
Ciò che mostra l’apparenza di queste fotografie è l’ultimo punto di contatto tra chi resta e chi non c’è più.
Il modo in cui lo mostra, i colori decisi che qui non gridano per una festa bensì sottolineano con altrettanta forza l’aspetto tragico, le inquadrature così ravvicinate da poter quasi toccare gli oggetti, ci costringono a prendere atto di una realtà assurda: neanche un così elevato numero di morti frena il rischio dovuto all’alta velocità.
E ogni immagine richiama altre immagini.
La stessa identica situazione si verifica all’interno della Grecia continentale. Una sola strada di montagna, strettissima, dove da un lato si ha una parete verticale di roccia e dall’altro l’asfalto termina di netto, come se fosse stato troncato da una sega elettrica, per diventare bordo di uno strapiombo di centinaia di metri. Nessuna protezione, nessun guard rail. Anche in questo caso le edicole votive si sono moltiplicate a dismisura. In alcuni tratti se ne trova una ogni 20, 50 metri al massimo. Anche in questo caso la velocità esagerata dei mezzi locali non è affatto scalfita. Non è raro infatti incontrare mezzi pesanti che sfrecciano a pochi millimetri dalla tua vettura.
Situazione pericolosissima e del tutto analoga a quella mostrata dalle potenti foto mostrate da Carlo Delli. E’chiaro quindi che questo non riguarda un popolo specifico ma tutti noi in quanto persone.
Le foto mostrate, così come il ricordo personale in me richiamato, hanno in comune lo stesso senso di angoscia in cui risuona una domanda senza risposta: perché vi è questa contraddizione?
Quando vi è una perdita, prendiamo atto che la morte esiste e per mantenere un contatto con chi non c’è più si costruiscono cose, si arredano di simboli, si lasciano segni.
Dopo aver elaborato il dolore torniamo a rimuovere la morte, come se non esistesse, non ci riguardasse e riprendiamo così a sprecare la vita.
Grazie Vincenzo! Questa è la mia considerazione CENTRALE. E’ senz’altro pessimistica, come anche tu hai rilevato, pare che niente ci possa rendere CONSAPEVOLI di ciò che facciamo. Questo ha un riscontro puntuale nella nostra psicologia, nella dinamica della mente umana, che conosco abbastanza bene per studi e pratica. C’è di disperante che la stragrande maggioranza delle persone è NON-COSCIENTE di ciò che pensa e quindi di ciò che fa (c’è una valanga di studi scientifici che lo certifica). Ma d’altro canto c’è di ottimo che OGNUNA/O di noi ha la possibilità di risvegliarsi. Risvegliare la massa è combattere i mulini a vento, risvegliare la persona è una possibilità meravigliosa, ed è quello che nel mio piccolo cerco di fare, anche con la fotografia.
I tuoi progetti hanno sempre la capacità di stupire e invitare alla ricerca e alla scoperta del mondo.
Questa “collezione” si riflette anche nel nostro paese, spero che tu possa rappresentarlo presto anche in versione nazionale, ma andrà bene anche un qualsiasi altro tuo progetto!
Giuseppe grazie! In realtà l’ho già fatto! Ho una foto finaleche è un collage dei ricordi di 22 incidenti stradali mortali nel giro di pochi chilometri da casa mia. Non l’ho messa qui perché come riflessione va bene ma fotograficamente esula dal filo della narrazione.
Carlo Delli, nostro socio onorario (Club Fotografico Apuano), in una sua “recente” serata ci ha esposto e commentato questo suo “reportage” – I coyote non colorano il deserto –
Esprimo nuovamente, come già fatto di persona, i miei complimenti per aver descritto egregiamente questo particolare tema.
In questo lavoro ho avuto sensazioni di tristezza e di devozione e, nelle icone, nel colore, nelle croci, nei fiori, negli oggetti e nelle corone, il monito e la pericolosità di queste strade ma, nello stesso tempo, con la “Vivacità” dei colori, ho percepito anche la volontà di rappresentare una speranza di “Vita”.
Come sempre Carlo ha la capacità di trasmettere con la sua ecleticità, e spiritualità che lo contraddistinguono, riesce a trasmettere le sue personalissime interpretazioni.
Come non ringraziarti Ennio! Hai scritto una delle parole chiave della vita e della mia fotografia: SPIRITUALITA’, concetto ovviamente da non sviluppare in questa sede ma che è sempre presente.
Ciao Carlo, sono a farti i miei più cari complimenti su questo tuo progetto, sia per la bella fotografia, ma soprattutto pieno di tanta sensibilità. Cosa dire… mi fa riflettere molto trasmettendomi forti emozioni.
Un forte abbraccio nella speranza di rivederci presto.
Conosco Carlo da quasi cinque anni e non ricordo di avergli sentito usare mezzi termini. Anzi la prima cosa che mi colpì di lui fu il modo esplicito, senza giri di parole, con cui affronta in pubblico temi che nella nostra società sono diventati quasi tabù o facilmente – troppo facilmente! – bollati come “new age”: l’anima, la meditazione, la ricerca della felicità attraverso un percorso spirituale, la morte, tanto per citarne qualcuno.
Queste immagini trasmettono un messaggio articolato si, ma duro, forte, chiaro, netto come le luci che ha scelto di usare, improvviso come lo schianto che ha dilaniato i corpi di quegli uomini, donne, bambini: le loro anime forse ancora vagano smarrite in quell’aspra pianura , o forse quei tempietti, gli oggetti portati lì dai loro cari, il loro dolore e il loro amore davvero le hanno aiutate a trovare la strada verso la luce e la pace. Io lo spero.
Grazie Paola! Ennio ti ha appena preceduto, ma tu hai approfondito – anche conoscendo meglio il mio percorso, quello che ho cercato nella vita ma anche quello che ho TROVATO. Voglio però sottolineare una cosa che hai detto: “Non uso mezzi termini”. E’ vero, a volte sono “troppo” diretto ed esprimo in tal modo le mie convinzioni. Il fatto è che ho fatto profondamente mia la lezione popperiana, e io GODO delle critiche, TUTTE le critiche, perchè SO che solo da queste posso imparare, e non me la prendo mai, ogni critica è una lezione fruttuosa. Il guaio è che a volte suppongo che anche le altre persone siano così… ma così non è e capita che qualcuna/o se la prenda a male… Diciamo che per qualcuno sono “scomodo”… Namasté Paola!
La civiltà moderna ha bisogno di confini, i confini ci fanno sentire più confortevole la vita, danno l’illusione di contrastare quello che non riusciamo a capire, l’infinito. Non parlo soltanto di frontiere nazionali o particelle di terreni, ma anche e soprattutto della necessità di definire e spiegare qualsiasi cosa, lasciare segni anche quando no c’è apparente utilità se non per chi rimane. Colorare il deserto dal punto di vista del coyote non so se sia molto intelligente…
“Creare dei confini come illusione per cercare di capire l’infinito” è una immagine efficace per un tema da sempre presente nella mente dell’essere umano! Gazie Andrea!
\Quel bamboccio … Vi ha fermato!!!
È STATO LUI !!!
…”Per fortuna non lo ho mai sognato, ma era davvero inquietante, ed è stato lui a farmi cambiare lo scopo del viaggio, che era tutto un altro scopo. Occorre essere pronti ad ascoltare quello che i luoghi ti dicono… ”
Riprendo le tue parole Carlo per costruire il mio pensiero ..
Ogni viaggio ha il suo compito ben definito e questo non poteva che essere tale… Noi siamo viaggiatori, scopritori, turisti persi in questa distesa della Terra senza confine ma imprigionati dai nostri pensieri limitati del nostro essere/avere, ma quel filo, quella strada, così lunga, piena di vuoti e di morte .. Ti/Vi ha fermato!!!
Il culto della Morte fa parte della nostra esistenza, è l’unica certezza e anche l’unica vera paura che abbiamo .. ma in questo tuo fermarti ti sei fatto messaggero.
Affrontare con il colore la Luce e Ombra.. la Vita e la Morte… è geniale, ma costruire un filo logico che emoziona .. è Poesia!! E qui la simbologia ricca di messaggi … le croce di sofferenza e sacrificio, fiori di vita e colore di ogni stagione, candele ..luce dell’eternità …il Dio Sole e l’arida aria che asciuga il respiro … “animitas” emozioni di sentirsi a casa… uniti in un linguaggio semplice e diretto…un legame al qui e ora e al aldilà che ci richiama a riflettere!
Non a caso questo straordinario lavoro arriva ai nostri giorni in cui la Morte si presenta con nome e cognome ridimensionando la nostra Vita, cercando di spiegare ciò che da sempre i nostri antenati provano a fare… ossia creare un distacco tale con essa che le permetta di arrivare come la nascita.
Come in un viaggio tutto è di passaggio!!
Grazie caro Carlo di questo bellissimo e intenso lavoro che ci invita a riflettere su il nostro “vivere” e “morire” ogni giorno come il giorno e la notte.. luce e ombra!
Splendida e sensibile lettura di luoghi e contesti non sempre facili da interpretare,
da parte di un grande, un sempre grande Carlo Delli.
Grazie caro Carlo di avermi offerto l’opportunità di gustare un lavoro così particolare,
fuori dagli schemi.
Nel contempo, grazie di avere innaffiato in me la pianta del desiderio al viaggio,
che in questo particolare periodo si va essiccando.
Questo lavoro lo avevo già visto quando lo hai portato in una tua serata, al Circolo di Pontedera e già allora mi aveva suscitato una forte emozione di tristezza e di dolore pensando a quanti, da quella strada, non hanno più fatto ritorno a casa. L’immagine di apertura, per me, è la chiave di tutto il lavoro, dove il bambolotto simboleggia la vita che si è fermata, ed il tir in piena velocità, è la vita che continua e che non si ferma a guardare quei simboli. Quanta gente deve aver pianto e quanto dolore sprigionano quelle manifestazioni concrete di disperazione per una vita spezzata. Come dici i coyote non hanno religione, ma forse in altro modo anche loro sentono la perdita di un simile a cui sono affezionati (i cani insegnano). L’unica diversità con noi umani è appunto questo voler ricordare chi non c’è più, con l’intento di non dimenticare e tenere sempre vivo il ricordo. Gli scatti effettuati con una luce molto intensa e dai forti contrasti, aumentano la drammaticità del lavoro e descrivono l’ambientazione (odore di asfalto che ribolle sotto il sole, caldo e sabbia portati dal vento e sterminati chilometri di paesaggio nel nulla) ed il forte patos emotivo che sprigiona ogni singola immagine che rappresenta manufatti dai vivaci colori in difformità dalla nostra tradizione nel raffigurare la morte.
Ringrazio Carlo per averci presentato ad una nostra serata questo lavoro, del quale ho avuto la fortuna di ammirare le stampe di grande formato, apprezzando ancor più i colori e i dettagli di questi luoghi che raccontano questo suo viaggio nella terra dei coyote.
Un lavoro interessante che va oltre alla sola rappresentazione dei luoghi.
Lo sguardo viene rapito dalla prima immagine macabra e terrificante ma in forte contrasto con le altre se pur in relazione queste trasmettono allegria, poi un richiamo all’alta velocità a farci intuire il perché delle animitas.
Ed è proprio questo contrasto che porta ad una riflessione di come la percezione della morte può essere vissuta in maniera diversa.
Invitandoci a meditare su la vita.
Le animitas costruite per rendere eterna la memoria del defunto ma sottoposte nel tempo al degrado con il lavoro di Carlo continueranno a rimanere indelebili e anche questo ci porta a riflettere di quando la fotografia sia importante e di quanto sia legata al concetto d’immortalità.
E questo l’uomo lo può fare ma i coyote no.
Grazie Carlo.
Grazie per le intense considerazioni Elena! ANche tu hai preso ciò che volevo dire, lo hai elaborato e rimandato un po’ più ricco. Quando questo avviene il comunicatore ne gode!!! Metti l’accento che la persona umana fa cose che i coyote non fanno. Questo è verissimo, e anche se ovvio è giusto che tu lo sottolinei… ma io rilancio: tutto quello che POSSONO fare i coyote lo fanno, ma l’essere umano fa tutto quello che POTREBBE fare??? …io, anche e non solo con la fotografia,cerco di stimolare a farlo… a presto (sperem!)
Bel lavoro, riesce a raccontare a fondo ciò che si prefigge, ma io preferisco il Carlo Delli metamorfico…naturalmente è solo una mia opinione
Grazie Claudio, anche per la sincerità, ma so bene che il mio eclettismo sconcerta più di una persona… ma la mia idea principale è sempre quella, anche qui: raccontare il rapporto tra essere umano e Natura (= Spirito Universale) e far riflettere su come la conduciamo questa nostra vita, a cosa ci dedichiamo durante il suo tempo che non tornerà? Ci dedichiamo davvero alle cose essenziali???
Sei una bella Anima Paula! Userò queste tue parole, queste tue riflessioni e constatazioni per accompagnare questo mio lavoro… viene voglia di rileggerle, proprietà degli scritti di vera saggezza e di poesia…
Niente è a caso, non credo alle coincidenze, e così penso che mostrare il tuo lavoro in questo particolare momento della nostra vita abbia un suo perchè…
Chi mi ha preceduto ha detto tutto: da un’analisi antropologica delle edicole/animitas che dir si voglia a quella filosofica del rapporto tra noi e la morte vista come “scandalo” dei nostri tempi, alla riflessione sul senso della vita ai giorni nostri e come dovremmo “alzare il piede dall’accelleratore..” per un elogio alla lentezza che non ci appartiene.
E io che posso dire? Mi identifico con Dario, neanche io ho la tua caratura artistica e fotografica per esprimere un giudizio e come lui mi limito a esprimere ciò che le tue immagini mi hanno suscitato, cosa mi hai fatto provare a pelle, senza veilletà di voli pindarici..
Quando ho visto per la prima volta il tuo lavoro la foto che più mi ha colpito in assoluto (e che ancora esercita il suo fascino su di me) è quella del bambolotto. Colpisce il soggetto, appeso per le braccia, nudo, la testa all’indietro, gli occhi chiusi e il tir che gli sfreccia veloce accanto.
Impossibile rimanerne insensibili, impossibile non pensare…
Ci credo quando dici che “è STATO lui a farti cambiare lo scopo del viaggio..” perchè SI’ “i luoghi hanno un ‘anima e possono chiamare chi li attraversa..”
Colpisce anche un altro aspetto : i colori. Sono forti, duri, vivi.
La luce accecante, le ombre nette, i cieli così azzurri che fanno male agli occhi. La terra arida, polverosa. Avverti la forza del sole, la senti sulla pelle, la vedi nei fiori finti scoloriti. E senti il silenzio, nonostante la strada, assoluto, assordante.
E le inquadrature, così ravvicinate da farti entrare dentro, e tu non sei più spettatore assente ma protagonista.
Un lavoro sì seriale ma, NON ripetitivo, immagini che possono sembrare tutte uguali per tema eppure sono tutte diverse, ognuna un mondo a sé, e con una sorta di voyuerismo, di macabra curiosità, aspetti un’ altra immagine e un’altra ancora e non ne sei mai sazio perchè, sono d’accordissimo con Isora: “sei riuscito a far emergere l’allegria, l’amore, la bellezza anche nella morte” che diventa una presenza viva e familiare.
Ciao Carlo complimenti per il tuo racconto, è sicuramente un viaggio fatto da chi sa guardare e raccontare, da chi ha un senso meditativo molto forte dietro ogni suo progetto. Il rapporto con la morte mostratoci evidenzia la lontananza e la differenza della cultura messicana in relazione alla morte e all’anima dei loro cari. Ho trovato molto affascinante l’atmosfera che si percepisce attraverso colori e contrasti che caratterizzano e riconducono alle immagini delle divinità della morte messicane e i loro costumi tra sacro e profano.
Un viaggio che sicuramente mette a confronto noi europei con una visione molto diversa dell’imprevedibile morte e il trapasso dell’anima, una raccolta di foto che ci suggerisce infiniti spunti di riflessione.
Ciao Carlo, anche per me l’attinenza di questo lavoro con il periodo attuale è senza dubbio molto pertinente.
Lggere queste immagini è come seguire una linea dove la forma non è la logica degli avvenimenti, ma molto di più, subentra la parte emotiva che si evince dai tuoi scatti che secondo il mio modesto parere è quello che da forza al racconto, le foto ci fanno pensare, ragionare, entrare nella profonda situazione di quello che una cultura diversa dalla nostra, si avvicina in qualche modo alla realtà di oggi.
Avevo già visto il lavoro, ma rivederlo in questo periodo così nefasto me lo fa apprzzare ancora di più.
E’ proprio così in America Latina:la morte è come la vita, colorata al punto da trafiggere l’osservatore sia esteticamente che emotivamente. Il colore saturo e contrastato fa di qualunque cosa un feticcio, un’esasperazione, un ammonimento che ci avverte che la morte è appariscente come la vita e i morti danno l’impressione di controllare i vivi. Queste foto non mostrano mai un essere umano ma la sua presenza è predominante, sia vivente o morto. Un buon lavoro, Carlo.
un bellissimo lavoro e un uso del colore che rafforza il messaggio e la comprensione di una cultura.
Quando, con il giusto spirito di conoscenza, ci immergiamo nelle culture di paesi lontani, nel naturale cambiamento dei costumi e delle abitudini è facile notare, ed anche in maniera marcata, il diverso approccio alla vita ed alla morte.
In America, la strada che congiunge Tijuana a La Paz è percorsa troppo spesso a grande velocità e con pochissima prudenza dagli abitanti di quelle contrade che, per la loro incoscienza, sembrano pervasi da quel nichilismo esistenziale che nega il valore della vita, ma in realtà non è così, perché dopo averla persa cercano di perpetuare quel ricordo che si oppone al nulla che segue la morte.
Per questo costruiscono le “animitas” monumenti funerari spesso composti da povere cose dipinte che sono una festa di colori esaltati dal sole con giochi di luce e ombra.
Molte, segnate dall’abbandono tipico dell’oblio del tempo trasmettono un sentimento di grande tristezza che i cromatismi vivaci non riescono ad attenuare.
In fotografia i colori forti e saturi tipici dei paesi latino-americani con forti contrasti ed ombre taglienti sono diventati moduli espressivi di tanti autori che hanno lavorato in quelle latitudini, da David Alan Harvey ad Alex Webb, per citare i più famosi.
Non potevano queste atmosfere sfuggire ad un bravo fotografo sensibile come Carlo Delli artista poliedrico e, aggiungo, meditante.
Come asseriva il monaco zen Thich Nhat Hanh: “i meditanti sanno sempre di dover usare i loro occhi e il linguaggio del tempo a cui appartengono per esprimere la loro profonda comprensione”.
Ed è proprio l’arte fatta a macchina, espressione della modernità, quella scelta da Carlo per tradurre in pratica le proprie aspirazioni.
Attraverso tagli giusti soddisfa le esigenze di una narrazione efficace.
L’autore ha compiuto una sintesi perfetta, nessuna ridondanza, e tutte le immagini, nella loro varietà, hanno completa giustificazione. L’unitarietà tecnica è rispettata perfettamente attraverso una stampa accuratissima.
Anche l’aspetto cromatico, che risulta esaltato, è appropriato e funzionale alla comunicazione.
Tutto bello! Carlo non ti smentisci mai
Grazie prof. Evamgelisti!! Anche lei non si smentisce mai. Anche se conosce bene le stampe quel che ha scritto mi ha piacevolmente sorpreso. Ovviamente gli rubo questo scritto per affiancarlo alla mostra.
Bellissimo lavoro
Un viaggio alla ricerca del suo coyote in una realtà al limite del surreale.L’Autore trova una strada, che sembra non finire, senza apparenti ostacoli ma comunque costellata di Cippi che ricordano la fine di una vita gettata inutilmente sull’altare della follia umana. L’autore non troverà il suo Coyote ma una profonda riflessione che riesce a trasmetterci con le sue mirabili immagini.
Ecco un Carlo Delli inedito, che dalla fotografia naturalistica e concettuale ha saputo passare con la stessa felicità comunicativa alla cronaca. Dimostrazione evidente che, chi ha le idee chiare e con la fotocamera ci sa fare, può sempre riuscire a essere se stesso.
Onoratissimo del commento di così autorevole studioso della Storia dell’Arte Modera e di Fotografia in particolare!!! E in poche righe concetti profondissimi che apprezzo con grande piacere.
Interessantissimo questo lavoro di Carlo Delli e interessante anche la presentazione di Attilio Lauria. Quello che più colpisce in queste immagini è il bisogno, da parte di parenti e amici dei defunti così tragicamente scomparsi, di eternare, in modo così sorprendentemente laico,il ricordo di un accadimento che per certi versi è il risultato di un istante di distrazione e comunque effimero nella sua tragica rapidità. Immediato è il confronto con i nostri cippi posti lungo le strade provinciali o addirittura le grandi arterie cittadine: questo confronto ci dice che la molla che spinge al mantenimento del ricordo è la stessa. E’ un lavoro quello di Carlo, lucido, a tratti perfino ironico nella documentazione di accadimenti così tragici ed estremamente ben realizzato. Complimenti all’autore
Il “Rapido confine”, di Carlo Delli, è un’opera narrativa tematica per l’interpretazione soggettiva di una specifica realtà.
L’autore ponendo in sequenza senza sosta di questi segni religiosi di cordoglio, posti al bordo della strada, ha intensificato il senso di questo fenomeno che probabilmente visto nel deserto si presenta diradato.
Ma la compiutezza di un’opera sta proprio nell’esprimere chiaramente l’interpretazione del fotografo.
La consapevolezza nel perseguire il senso è evidente anche nel passare dalla rappresentazione ambientata del segno a quella strettamente chiusa in esso. In pratica la sua visione, e quindi il sentire, va dall’esterno all’interno di questo fenomeno dai molteplici aspetti significanti.
E’ potente la presenza delle riprese con la presenza in mosso degli automezzi, perché con la loro violenta apparizione… rompono il silenzio che pervade i segni commemorativi, spesso contornati da reperti dell’automezzo devastato nello scontro autostradale.
Il titolo stesso ha una forte forza metaforica nel evocare il rapido confine tra vita e morte.
La scelta della valorizzazione cromatica penso sia un rispettoso rimando alla vivacità delle culture americane che riescono a esorcizzare l’impenetrabilità della morte dandole un volto umanissimo delle icone fotografiche e religiose.
Complimenti a Carlo Delli per aver compiuto una scelta tematica di forte impatto, in un ambiente straniante nel quale è più facile lasciarsi prendere da paesaggi stereotipati.