Dai tavoli di portfolio

OGGI COME IERI E, FORSE, UN DOMANI – di Silvia Facchini

dai Tavoli di portfolio.

Lei è lì come un confine violato, all’improvviso con la sua imponenza ed un pizzico di arroganza nell’apparire ai visitatori che vogliono capire.

Lei è lì, a dividere il tempo da quello che è stato a quello che è, è lì a dividere l’incertezza dalla certezza, è lì a dividere il peccato dalla giustezza.
Lei è lì, stabile perché la memoria non sia labile nel ricordare che ci vuole rispetto della vita, di qualsiasi forma sia.
Lei è lì, a ricordare che dagli errori fatti si può e si deve imparare.
Lei è lì, come una linea di demarcazione, come un con-fine non necessariamente di un fine ma di un inizio, tutto dipende dal punto di vista con cui si osserva.

Lei, la diga, è lì……e, come un’eco, ci ripete che tutto ciò che accade, dipende da noi e non va dimenticato.

Silvia Facchini

 

OGGI COME IERI E, FORSE, UN DOMANI

 

 

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Un commento

  1. La fotografia è una compagna stimolante per chi, come l’autrice, cerca la conoscenza diretta delle cose perché l’atto fotografico rende la fotografa un interlocutore sensibile e attento, chiedendole di esprimere con una scelta visiva la propria interpretazione della porzione di realtà elevata a soggetto.
    La ricorrenza del 60º anniversario dal disastro del Vajont, avvenuto il 9 ottobre 1963, è stato lo stimolo per Silvia Facchini a visitare quei luoghi per vedere, a distanza di tempo, cosa ha prodotto l’immenso dolore di questa incredibile storia pubblica.

    La fotografa, che cerca di narrare fatti del passato, deve essere ben documentata per saper riconoscere i segni di un lontano evento tra le cose dell’attualità di una realtà ricomposta.
    Ella camminando per i luoghi del disastro, si trova davanti al dolore degli altri e, nel silenzio della pace surreale di oggi, vive emozionalmente il rapporto con l’ambiente del disastro e può immaginare lo strazio delle migliaia di vittime, oltre 2000, morte tragicamente in pochi attimi travolte nelle loro case da un fenomeno veramente apocalittico che ad immaginarlo toglie il fiato.

    E’ significativo notare che le fotografie, in un austero Bianco Nero, mostrano essenzialmente la realtà delle cose: la diga, la gola tra due montagne con laggiù la vallata con le case. Dall’impersonale scenario ambientale, la ricerca poi incede sempre più verso frammenti significanti di singole storie dalle proporzioni umane e con valenza affettiva ed emozionale: la tomba, i manifesti della coscienza civile, le denunce scritte sui muri e poi le crepe nel cemento simbolo di un’energia devastatrice, le rovine delle case sventrate e i muri di sasso nudi che non proteggono più nulla, infine le pignatte raccolte qua e là e gli scarponi che emergono dalle macerie.

    L’autrice ha voluto parlare alle coscienze e con le sue fotografie ha rispettato la realtà delle cose considerandole come reliquie. La sua scelta narrativa è stata quella di trovare i contenuti per dar forma a domande le cui risposte restano sospese nel significato metaforico dell’ultima fotografia del tunnel maestoso e del piccolo uomo che appare in fondo alla sua luce.

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