Shizuka Yokomizo: L’immagine come rappresentazione concettuale
SHIZUKA YOKOMIZO: L’IMMAGINE COME RAPPRESENTAZIONE CONCETTUALE
Shizuka Yokomizo nasce a Tokio nel 1966 e dopo una laurea in Filosofia si trasferisce a Londra per studiare graphic design; qui si rende conto del fermento culturale e inizia ad interessarsi all’arte avvicinandosi alla fotografia: “Il campo visivo della macchina fotografica, che imita i nostri occhi, mi ha consentito di esprimere un determinato senso esistenziale con maggior accuratezza di qualsiasi altro medium”[1]. Un medium, uno strumento che consente al suo pensiero e ai concetti che ne derivano di prendere forma attraverso l’immagine: la macchina fotografica diventa una sonda che consente di aprire varchi sul mondo esterno – che è altro rispetto al se’- rendendo possibili relazioni e comunicazione. Le immagini di Shizuka non nascono per appagare la ricerca di un senso estetico o emozionale ma per “pungolare” le nostre menti. Chiunque si trovi di fronte ad una sua immagine inevitabilmente si chiederà:“Perché questi soggetti ? Cosa significano? Cosa vogliono comunicare?”
Le sue Immagini sono riflessi concettuali e come le ombre del mito della caverna di Platone rimandano ad altro, superfici visibili di riflessioni teorico-speculative. Ogni sua immagine si articola in due momenti – benché a Shizuka interessi soprattutto il primo – : la struttura portante che altro non è che il concetto allo stato puro e il contenuto cioè la traduzione visiva del concetto che Shizuka indaga: la relazione io/mondo, io/altri e la distanza intesa come variabile che intercorre tra queste relazioni, modificandole.
Vediamo di capire e poi di vedere tutto questo attraverso 3 suoi lavori.
In “Light” i soggetti sono individui omonimi di personaggi biblici, ricollocati in contesti omologhi e dei quali colpisce soprattutto l’aura, la luce che emanano e li circonda creando una sorta di nicchia in cui vanno a collocarsi naturalmente e che costituisce il loro mondo. In “Light” il concetto da rappresentare è la relazione io/mondo inteso come realtà trascendente, il contenuto è la resa visiva di questo concetto in cui i soggetti diventano portatori e testimoni della spiritualità.
Immagini non immediatamente leggibili e interpretabili se non a partire da una decodifica del linguaggio di Shizuka e dalla costruzione di una mappa concettuale.
In “Sleeping” Shizuka parte ancora da una riflessione concettuale per arrivare ad un contenuto rappresentativo: stavolta si tratta della relazione io/altro nella quale introduce però una variabile che influisce nella resa visiva. In “Sleeping” Shizuka conosce i suoi soggetti, come in “Light”, ma per fotografarli attende che dormano in modo che l’”intimità” tra il soggetto fotografato e il fotografo sia alterata e quindi mediata da una distanza che produce al tempo stesso presenza e assenza. L’immagine, rispetto al precedente lavoro, rappresenterà quindi il concetto con una sfumatura diversa, quello dell’esistenza del soggetto priva di consapevolezza.
In ultimo “Stranger” in cui Shizuka propone un esperimento interessante: invia a sconosciuti, presi a caso da un elenco telefonico, una lettera in cui chiede loro di avvicinarsi in un giorno e ad un’ora prestabilita alla finestra per lasciarsi fotografare. Condizione essenziale: gli sconosciuti non dovranno cercare nessun tipo di contatto con la fotografa e la loro positiva partecipazione si esprimerà semplicemente con la presenza davanti ad una finestra e la luce accesa. Evidentemente, ancora una volta non si tratta di ritratto e ancora una volta Shizuka utilizza il medium fotografico partendo da un’architettura concettuale: di nuovo il rapporto io/altro ma la variabile incidente è stavolta la distanza tra fotografato e fotografo tradotta in una totale mancanza di “intimità”. In “Stranger” i soggetti comunicano una presenza “forte”, sono padroni della scena proprio in virtù di questa distanza totale.
Concetti, contenuti visivi e comunicazione: questa è l’immagine per Shizuka. Lo studio delle relazioni umane, delle distanze, degli equilibri instabili a partire dalle distanze stesse e la partita che vede impegnati in un’altrettanto delicata e precaria triangolazione, chi fotografa, chi si lascia fotografare e chi osserva.
Alessia Lombardi
Firenze, 6 marzo 2012
Trovo particolarmente interessante Stranger. Mi rimanda all’idea di distanza , a quella fitta rete di relazioni umane che nascono a distanza, magari sui vari network .E ‘ un’umanità che si fa ricordare , perché in fondo lo vuole. Tutti cerchiamo di lasciare tracce , ma siamo allo stesso tempo perplessi davanti a questa esigenza , così oscilliamo fra l’esibizionismo e il riserbo , fra il voyeurismo e il pudore .
Immagini non facili da leggere e da “assimilare” (nel senso di “far proprie”), perchè oltre ad una scrittura molto personale propongono anche una ricerca concettuale che “tocca le nostre corde” solo se il nostro stato d’animo in quel momento è sintonizzato (vuoi per motivi personali, vuoi per affinità di interesse…).
Diventa quindi molto importante il titolo, perchè dà una prima chiave di lettura che ci consente di entrare in questa sintonia.
Dopodichè, è necessario porsi in ascolto, senza fretta… e ognuno riuscirà a recepire un suo messaggio, una riflessione.
In questi tempi “sincopati”, non è poco…!
Personalmente, mi è piaciuto rivedere nella seconda immagine (light 1997) una nuova Maria, ancora nelle tenebre del mondo, compiaciuta di un nuovo Figlio che le è stato dato… con tutti i “rimandi” che se ne possono trarre e che ci consentono di vivere meglio il nostro tempo.
La creazione di progetti diversi,cercati e voluti per comunicare dall’autore l’incontro con l’essere umano è fantastica. Presenza sotto lo spot di luce, presenza/assenza nelle figure dormienti, presenza da esibizione perchè richiesta ed accettata dal soggetto. Veramente molto interessante. Poi ognuno ci legge quello che sente sia stato comunicato.
Lugo
Parafrasando una nota pubblicità di una banca la prima cosa che mi viene da dire è: la mia fotografia è differente.
Non conosco l’autore quindi il mio intervento si riferisce, ovviamente, alle foto presentate.
Sinceramente mi arrendo sul piano emozionale poiché personalmente mi riesce difficile “catalogare” queste immagini come fotografie forse perché il registro è troppo intimo/soggettivo e nell’interpretarlo si rischia di cadere in facili stereotipi. Mi riesce più semplice considerare queste immagini come un discorso visivo altro rispetto alla fotografia.
Mi spiego meglio, vedo queste immagini come un’istallazione visiva che utilizza si la tecnica fotografica per realizzare però un qualcosa di diverso, altro rispetto alla fotografia.
Mi permetto un esempio anzi due:
nel movimento Dada Tristan Tzara teorizzando “il rifiuto del sistema di comunicazione convenzionale“, propone quella scrittura libera da ogni regola sintattica giocando sull’accostamento delle parole (poesie simultanee) e dei fonemi (poesie fonetiche).
Esempio di poesia fonetica scritta in estemporanea:
dsgsfdghdgfj
dgthdyjnhgku
fgdrthfjytkjjhkg
sdfgdtrujcytik
cvncbfghsde
Cosa succede quindi? Ho utilizzato “l’impianto” linguistico da noi conosciuto (la tecnica fotografica) ma ho tirato fuori una cosa diversa aliena alla lingua corrente o se vogliamo comune.
Ma torniamo a noi, nello stesso movimento troviamo Emmanuel Rudnitzky noto alle cronache con lo pseudonimo di Man Ray (non racconto qui la sua storia chiaramente). Questo simpatico personaggio è conosciuto per le sue raygrafie non per le sue fotografie come molti a torto pensano, queste vengono realizzate sicuramente con tecnica fotografica ma sono non fotografie tanto che lui stesso lo ha sempre esplicitato.
In sintesi, non me la sento di considerare le immagini di questo post come fotografie e idealmente chiedo aiuto ad Umberto Eco affinchè mi suggerisca un neologismo più calzante semanticamente ma provocatoriamente anche semioticamente senza disturbare nè de Saussure né Peirce.
Trovo molto interessante l’analisi di questo autore e un input all’approfondimento per la vicinanza ai miei interessi. non posso che ringraziarti Alessia
All’inizio del ventesimo secolo Arnold Schönberg elaborò un metodo di composizione con dodici note, poste in relazione soltanto l’una con l’altra (dodecafonia), senza che i loro rapporti fossero in alcun modo riferibili ad una nota fondamentale. Fu il definitivo affrancamento dalla prassi compositiva e dalle gerarchie della musica tonale.
La fotografia di Shizuka Yokomizo appare come ‘dodecafonica’ nella misura in cui recide i legami con la prassi compositiva e le sue gerarchie, per affidarsi alla rappresentazione di un ordine casuale di eventi, progettualmente provocato.
Nel Don Giovanni di W. A. Mozart, nella scena in cui il Commendatore (convitato di pietra) rifiuta le portate, affermando la sua appartenenza al mondo dei morti (Non si pasce di cibo mortale Chi si pasce di cibo celeste), le note della declamazione cantata, integrate con quelle dei bassi, formano una serie di dodici suoni, senza vincolo di subordinazione gerarchica con la tonica e la dominante. Gli storici della musica sono prudenti nel vedere in questa frase musicale una anticipazione storica della dodecafonia; tuttavia è possibile ritenere che Mozart (come riferisce Massimo Mila), là dove la musica si avvicina al massimo della concitazione drammatica o della profondità di pensiero, abbia teso a disarticolare le linee dell’assetto tonale.
Anche la fotografia di Yokomizo esprime la disarticolazione della struttura, a lui necessaria per contenere quella ‘Stimmung’ diversamente non descrivibile.
Fin dall’inizio del mio percorso fotografico ho ritenuto intrigante la fotografia di concetto, forse influenzata dagli studi dall’arte surrreale e metafisica , considero l’idea la cosa piu’ importante in una fotografia, certo supportata anche da una buona tecnica. La fotografia come sperimentazione anche con l’uso dei nuovi mezzi tecnologici, mi piacerebbe che se ne parlasse ancora e chiedo anche l’intervento di coloro piu’ colti ed esperti, anche presentando altri autori concettuali, ringrazio molto questo blog, mi permette di condividere aspetti teorici culturali e di conoscenza,fotografica che vado scoprendo giorno per giorno.
Difficile sì da affrontare emozionalmente la fotografia di Shizuka. Forse impossibile perché, nell’intenzione della fotografa giapponese non c’è nessuna volontà di toccare la sfera emozionale.
Riporto un botta e risposta con la fotografa.
Intervistatore “ Parli come se tu vivessi sempre l’arte come una tensione, una messa alla prova, un tentativo. Ed emerge un carattere strumentale del tuo lavoro, come se questo fosse soprattutto un mezzo: per creare relazioni o per giungere alla comprensione di qualcosa.” Shizuka: “Mi sembra che l’arte sia una possibilità, un luogo in cui indagare le potenzialità visionarie di una persona. In altre parole l’arte permette di capire quanto un individuo possa esplorare il proprio mondo e allargarne la comprensione, ma forse non per se stesso. Ritengo che si tratti indubbiamente di una questione molto personale dell’artista ma che, al contempo, possa rivelarsi anche un’opportunità, un luogo in cui l’osservatore possa sperimentare un tale tentativo e reagire con la propria visione individuale”
Quella di Shizuka è fotografia se facciamo appello al significato del termine : “fotografia” è al tempo stesso “procedimento” e “oggetto” di questo procedimento. La riflessione va invece oltre quando vogliamo cercare di capire che “tipo” di fotografia sia. Ben vengano i riferimenti alle teorie passate – Barthes, Derrida, Peirce – e al presente – Eco, Elkins – . C’è ancora tanto da dire e scoprire sulla fotografia concettuale “questa oscura”. Mi unisco a Franca nell’invito a partecipare per tentare di ricomporre questo puzzle. Grazie a tutti gli interventi giunti fino ad ora, ognuno con la sua preziosa specificità!
splendido post che lascia ampi spazi di riflessione.
conoscevo già l’autore ed è molto interessante vedere come ogni tipo di fotografia faccia vibrare corde diverse del nostro sentire, si legge anche nelle risposte.
a volte sentiamo Beethoven, a volte Webern ma comunque entrambi servono ad alimentare la nostra anima