Drag Queen – di Andrea Marcuz
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Il travestitismo è un comportamento sociale oggi normalmente accettato.
Nel Medioevo quella che veniva definita “devianza vestimentaria” era regolamentata da leggi speciali, nel corso dei secoli furono diversi gli approcci culturali al fenomeno, ma è soltanto dagli anni 70 del secolo scorso che non parliamo più di devianza e oggi le Drag Queen si possono culturalmente assimilare al mondo dello spettacolo. Documentare, o meglio narrare, il percorso che porta sul palcoscenico una Drag Queen non è semplificabile con il tradurre in immagini il complesso maquillage cui si sottopongono.
E una metamorfosi interiore oltre che estetica.
E un rituale che si ripete, in apparenza sempre uguale a se stesso ma ogni volta storia a se stante, spettacolo nello spettacolo. In camerino possono entrare persone timide o impacciate, Qui annulla l’identità di genere, si azzera il confine tra maschile e femminile, ne escono artisti.
“Drag Queen”, di Andrea Marcuz, è un’opera animata da un’idea narrativa tematica per la rappresentazione soggettiva del backstage in cui l’attore entra nel personaggio della Drag Queen.
L’autore nel testo iniziale ben presenta questo antico esercizio anche dal punto di vista storico e con questo egli pone in forte evidenza il dramma del mutamento simbolico che il travestimento comporta.
La rappresentazione teatrale compie in modo particolarmente vivo, perché è performance, uno spostamento simbolico nel porre a livello collettivo quell’espressione individuale che nella realtà sarebbe ritenuta trasgressiva.
In generale la performance attrae la percezione del pubblico in modo diretto dalla forza della finzione teatrale che è capace di trasmettere forti emozioni.
La misteriosa alterità di una Drag Queen, con la sua ambiguità, colpisce l’inconscio con un fascino straniante capace di trasmettere molto più di quello che è realmente intentato dall’attore.
Tutti questi contenuti sono narrati nel portfolio dell’autore che con il linguaggio del frammento resta sempre a stretto contatto con questi corpi che con l’investitura della maschera assumono una apparente metamorfosi di genere.
Complimenti ad Andrea Marcuz che con la libertà da pregiudizi o repulsioni ha dato un significato soggettivo all’azione artistica degli attori. L’opera ha significato aperto e quindi porta la fotografia a conoscere senza giudicare.
Complimenti, entrare in un “mondo” altrui in punta di piedi ed uscirne con un bagaglio di immagini che hanno catturato l’essenza. Mai banali, mai volgari, mai violente nei confronti di chi ha scelto di essere. Anzi, come una carezza hai toccato l’essenziale, per farci capire cosa c’è oltre quella porta.
Complimenti a Andrea per questa rappresentazione delicata e rispettosa di un percorso che trasforma, nel breve tempo di un’ora o poco più, l’aspetto esteriore e interiore di una persona.
Mi piace molto il taglio delle inquadrature, quei primi piani e quei particolari che sono visione non invadente e oggettiva della metamorfosi che si sta verificando.
Un lavoro profondo.
Il lavoro di Andrea Marcuz sulle Drag Queen approccia in punta di piedi (forse anche troppo) il variopinto mondo del travestitismo artistico: sono presenti scorci, sfocati, primi piani esasperati e riflessi, ma senza mai porre in primo piano il soggetto del tema, quasi come se l’autore si mettesse in disparte,un po’ timoroso, ad osservare di nascosto i personaggi che animano queste performance. Inoltre la scelta del bianco e nero, a mio parere, penalizza un po’ il mondo, appunto variopinto, dei performers.
Complimenti comunque all’autore per il coraggio nell’accostarsi senza retorica a questo mondo molto particolare.
Voglio esprimere i più sentiti ringraziamenti ad Agorà per avermi concesso di rendere partecipi i Circoli Fiaf di questo mio particolare approccio all’identità di genere. Quello delle Drag Queen è un modo spesso rappresentato per la spettacolarità delle interpretazioni e dei costumi, raramente per il rito preparatorio e di vestizione.
La scelta B/N o colore mi sembra a volte più discriminante ideologica che finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo che si intende perseguire. Credo, nel caso specifico, che l’esigenza di dirottare l’attenzione dal glamour del palco all’anonimato del camerino, non poteva che passare dall’ostentazione del colore alla dissimulazione del bianco e nero.
Una argomento difficile da approcciare e, io credo, preso troppo con le pinze dall’autore che usa un bianco e nero a discapito di un colore che, nell’immaginario collettivo, appartiene alle DQ. Non penso che il colore sia ostentazione, anzi. La cromia identifica e entra nell’anima delle cose e delle persone.
Con il colore si sarebbe anche potuta marcare la differenza tra vestizione rituale e arte del palcoscenico che, a mio parere, manca.
Un po’ critico questo mio intervento, non me ne vorrà l’autore che, se vorrà, potrà continuare ad approfondire l’argomento, sviluppandolo in altri modi.