ArchivioDai tavoli di portfolio

Luca Oliani – “U(r)biquità” di Isabella Tholozan

 
 
 
 
 
 
 

Luca Oliani – “U(r)biquità” 

La seconda tappa di Portfolio Italia, tenutasi a Taranto nel mese di maggio di quest’anno, organizzata dal Circolo Fotografico Il Castello all’interno del 15° FotoArte, mi ha riservato tante sorprese, consentendomi di conoscere autori competenti e appassionati.
Luca Oliani (classe 1973), è uno di questi, diplomatosi presso l’Istituto d’Arte con specializzazione in Grafica Pubblicitaria e Fotografia/Cinematografia, dopo gli studi si trasferisce a Milano e inizia a lavorare come consulente fotografo e si specializza anche in fotografia scientifica.
E’ questa la peculiarità di Luca Oliani; la conoscenza scientifica della tecnica dello sviluppo analogico e la stampa d’immagini nate da pellicola, notoriamente esposta a obsolescenza e scadenza.
Grazie alle competenze acquisite negli anni, i rullini fotografici non hanno, per l’autore, nessun segreto e possono diventare materiale di sperimentazione delle varie tecniche di sviluppo e stampa.
Con la riscoperta del colore utilizza esclusivamente pellicole scadute, “imprevedibili” come le definisce, sfruttando la tecnica delle multiesposizione e dello swap film (lo scambio di uno stesso rullino tra due fotografi).
E’ proprio con questa tecnica che “U(r)biquità” nasce, ottenendo una segnalazione durante la tappa di Portfolio Italia 2018.
Oggi voglio presentarla al pubblico di Agorà di Cult perché significativa di due aspetti che, in realtà, appaiono in netta contraddizione tra loro: la precisione della conoscenza tecnica e la casualità della scelta dell’immagine rappresentata.
Sempre più spesso si tende a favorire il contenuto alla tecnica, asserendo che cosa fondamentale è la capacità espressiva dell’autore, relegando la “scienza fotografica” a un livello che, seppur importante, non debba essere, necessariamente, l’unico valore dell’immagine.
Luca Oliani, con le sue competenze, ci mostra un altro aspetto del “fare” fotografia, quello della competenza tecnica che diventa, tra le mani del fotografo, materia plasmabile, a proprio uso espressivo, in totale controtendenza con la contemporanea tecnica “digitale”, così specifica e asservita alla perfezione del risultato.
L’autore è naturalmente portato alla sperimentazione del materiale fotosensibile, arrivando perfino all’uso di pellicole ormai scadute da decenni, capaci però, come il lavoro mostra, di dare origine a immagini che potrebbero sembrare sottoposte al rituale contemporaneo del “filtro”.
E’ grazie a questa volontà che “U(r)biquità” nasce, opera narrativa dalle connotazioni artistiche, espresse a più mani,  proprio per merito di questa consapevole conoscenza tecnica che si trasforma in espressività: “pensando che da questo supporto fotografico, non si possa ottenere alcun risultato apprezzabile, ognuno scatta con apprensione e sviluppa con molta cautela la pellicola.  I risultati sono inaspettati, le foto sono ben fissate nel negativo, si pubblicano le immagini delle pellicole appese ad asciugare e l’entusiasmo di chi ancora ama il mondo della fotografia analogica coinvolge anche il popolo del web.”
Sono rimasta meravigliata dal fatto che le immagini, nate dal caso, non sono assolutamente banali ma, interagiscono tra loro come se fossero pensate da un unico autore; ma queste considerazioni, le lascio a voi.  Aspetto i vostri commenti!

Isabella Tholozan

 

Articoli correlati

4 commenti

  1. Il territorio della sperimentazione fotografica è molto fertile e la sua pratica può produrre immagini, come queste, generate solo da un inconscio tecnologico del tutto imprevedibile.
    E’ intrigante l’intreccio inconsapevole delle doppie esposizioni swap film, che l’autore ha usato; immagino presenti anche dello scarto ma le immagine poste nel portfolio godono di un curioso occultamento dell’autore, dato che: se i singoli scatti sono stati voluti, con la doppia esposizione l’immagine tecnica si prende il primato di generare un significato involontario occultando il fotografo.
    La forza metaforica dell’immagine prevale su ogni autorialità: “L’immaginazione metaforica conosce ragioni che la ragione non conosce” (Francesca Rigotti).
    Grazie a Isabella Tholozan che ci ha posto in evidenza questa opera interessante che può indurre ancora a nuovi commenti.

  2. Quando sperimentiamo, in fotografia come in qualsiasi altra arte, è la tecnica a prevalere o è l’autore che sperimenta (e magari se stesso)? E l’inconscio nasconde tutto oppure fa esplodere il soggetto, lo disvela nelle emozioni?
    Prediligo senz’altro le seconde ipotesi, entrambi. E in questo dispositivo vedo un percorso. Un cammino quotidiano e di piccoli gesti che pure colpisce come un grande racconto emotivo. Davanti a noi stessi non sempre è facile tirar fuori i pensieri, i concetti, una certa ‘morale’ che ci guidano e spesso ci affastelliamo nel rincorrerci. Ecco, qui senz’altro la tecnica e lo stile adottato guidano la rappresentazione arricchendola di mistero, di ricerca.
    Così, cosa può fare chi guarda un’anima messa a nudo in questo modo? Può condividere un percorso (anche se non è evidentemente il suo, di spettatore)? Può cercare di scorgere un senso (anche se gli sfugge, forse)? Può mettersi alla ricerca di stilemi, di grafismi, di figure retoriche (ammesso che le afferri, in questo agitarsi dell’anima)?
    A mio avviso può fare silenzio, mettersi all’ascolto. Riconoscere l’umano, altro da sé senza dubbio, ma così simile a noi stessi, a ciascuno di noi. Restare umani, esserlo.
    Io mi studio.
    Anzi, io mi (ri)conosco?

  3. Luigi Ghirri definiva la fotografia un viaggio attraverso le trasparenze: luce che attraversa lenti, mirino, pellicola.
    Qui la black box di Vilém Flusser non si limita più a produrre l’immagine tecnica della realtà, ma quella impronta si somma e si mischia ad altre impronte, riflessi di mondo, fotomontaggi naturali e, in questo caso, inaspettati.
    Siamo come dentro una scatola di vetro attraverso la quale non ci è più possibile distinguere il mondo dal suo riflesso.

  4. Fumare la pipa o la macchina fotografica? Mi ricordo ancora un mio professore delle scuole medie che fumava la pipa, asseriva che non lo soddisfava tanto il fumo che emanava lo strumento, quanto il rituale per accenderla e fare in modo che rimanesse accesa per lungo tempo. Avendo per anni fotografato con pellicola, negativo e diapositiva, sviluppando e stampando in camera oscura, mi viene spontaneo pensare, leggendo di fotografi che adorano l’analogico, che in fondo ha il medesimo significato della pipa fumata dal mio professore di lettere. Infatti si tende a dare maggior importanza al procedimento utilizzato, fatto anche di pellicole scadute oppure messe nel frizer, doppi scatti sullo stesso fotogramma, che al risultato prettamente fotografico. Questo a mio parere ne è un eloquente esempio, mi rammarica solo leggere che ora è considerata arte, invece trent’anni fa era routine creativa sperimentata in tutti i circoli fotografici d’Italia. Ma allora non c’era il digitale…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button