APPROPRIATION ART – di Gabriele Bartoli
APPROPRIATION ART
di Gabriele Bartoli
A partire dalla rivoluzione industriale del diciannovesimo secolo, il mondo ha iniziato a percorrere la scoscesa strada del progresso. La tecnologia ha subito e continua a subire enormi modifiche, sviluppandosi oggi quasi ogni minuto.
In questa situazione di instabilità gli artisti hanno assunto posizioni diverse a questo riguardo. Molti si sono opposti alle novità, ritenendo che l’Arte, “quella vera”, fosse quella della mimesi: che il bravo artista dovesse creare con le proprie mani e abilità conoscitive.
Altri al contrario hanno cavalcato l’onda del progresso tecnologico, inventandosi nuovi modi di rapportarsi con l’arte.
Uno di questi movimenti artistici è l’ Appropriation Art, iniziato nel primo Novecento con influenze cubiste e dadaiste e portata in auge nel nostro secolo. Alla stessa stregua anche i fotografi hanno seguito queste nuove tendenze espressive; questa ricerca vuole evidenziare alcune sfaccettature di questa evoluzione fotografica, che ha avuto in Joachim Schmid e Penelope Umbrico gli storici capostipiti sino ad arrivare agli ultimi autori che ne hanno interpretato il genere in maniera originale.
MISHKA HENNER
Henner è un “artista” belga, nato nel 1976, presto trasferitosi in Inghilterra dove risiede tutt’oggi. Qui ha frequentato l’università e il Goldsmith College dove si è diplomato in fotografia nel 1998. Henner è un fotografo e un “artista” che lavora a stretto contatto con tutti i prodotti della tecnologia e del digitale che chiunque oggi ha a disposizione. Dal 2010 inizia questo suo interesse verso il ruolo della fotografia all’interno della nostra epoca, le cui parole chiave sono globalizzazione e mezzi di comunicazione di massa: “un’era in cui l’Arte tradizionale non ha più senso di esistere, e forse anche la Fotografia ha raggiunto il suo limite di vita”.
Henner crea le sue opere ponendosi in quest’ottica: “se la Fotografia può ancora avere un ruolo nell’Arte, certamente non può averlo nella sua”.
Ad Henner interessano le immagini, non tanto il modo il loro processo di creazione. Non deve essere per forza l’artista per quanto esso sia fotografo professionista o meno a scattare le fotografie, questo obiettivo è obsoleto e sorpassato.
Henner è un fotografo che non scatta fotografie.
Si limita a rubarle, estrapolandole dal loro ambiente originario e inserendole in un nuovo contesto, come un dadaista avrebbe fatto un secolo fa.
Ci sono due opere che più di altre si prestano a presentare questa tecnica, si tratta di DUTCH LANDSCAPES (2011) e NO MAN’S LAND (2011-2013).
Entrambi sono diventati due libri d’artista che presentano un contenuto rubato, ed entrambi sono stati creati grazie a due strumenti tecnologici accessibili a tutti: GOOGLE HEART e GOOGLE STREET VIEW.
DUTCH LANDSCAPES presenta un centinaio di immagini prese dal satellite, di luoghi che il governo olandese ha deciso di nascondere al softwere di Google Heart quando è stato lanciato nel 2005. Non è una pratica inusuale questa, moltissimi paesi l’hanno fatto. Henner scelse l’Olanda perché notò che uno stato relativamente così piccolo avesse un gran numero di luoghi nascosti.
Inoltre, ogni stato ha un proprio modo di censurare le fotografie, e quello olandese è certamente uno dei più originali visivamente; il luogo censurato viene coperto da un patchwork colorato composto dai colori campionati da quella stessa fotografia. Si crea quindi una strana armonia, che Henner ha voluto rubare e riproporre in forma artistica.
Il titolo tende infatti a richiamare quel senso di desolazione che vive nelle fotografie, dove le uniche protagoniste sono le donne malinconicamente in attesa ai lati delle strade.
In entrambi i casi, Henner non ha modificato le immagini rubate a Google in alcun modo.
L’artista dunque, nella sua concezione, è tale anche se non crea.
ANDREAS GURSKY
Non ha certo bisogno di presentazioni; le quotazioni delle sue opere lo rendono indiscussa star internazionale, anche Gursky si è cimentato in un progetto di appropriazione. La serie OCEAN è costituita da immagini satellitari nelle quali l’acqua diventa un sublime e imperscrutabile vuoto. Incantato dalle immagini della rotta di un lungo viaggio aereo, Gursky ne interpreta la rappresentazione grafica, con i margini e le vette delle masse terrestri nitidamente delineate intervallate dalle vaste distese blu dell’oceano, come fosse una fotografia.
Per la serie OCEAN ha reperito immagini satellitari in alta definizione, da cui ha generato la sua personale interpretazione di mare e terra, consultando le mappe dei fondali per ottenere la giusta densità cromatica e visuale. Dominata dall’Atlantico, con le isole caraibiche e parti della costa del sud e del nord America visibili ai confini più estremi, OCEAN sottolinea la vulnerabilità dei continenti della Terra, mentre i livelli degli oceani aumentano ad un ritmo crescente. Le opere di Gursky, stampate nelle consuete dimensioni extra-large, toccano aspetti fondamentali della vita contemporanea, rivelando le minacce ambientali su scala locale e globale.
TATU GUSTAFSSON
Il progetto di Tatu Gustafsson, autore finlandese, durato quattro anni e intitolato WEATHER CAMERA SELF PORTRAIT, è un esercizio alla rinuncia del controllo artistico. Quando studiava fotografia, ha scoperto “di non amare il controllo che il fotografo detiene quando sta scattando una fotografia. Parlo della composizione e della regia sui soggetti che sto fotografando, volevo rinunciare a questo tipo di controllo”.
Le telecamere del meteo distribuite per la Finlandia sono diventate il veicolo per questo addio al potere. Ogni 12 minuti oltre 700 telecamere sparse per tutto il paese scattano una foto che viene caricata sul sito della Finnish Transport Agency per 24 ore.
Dall’autunno del 2012 Gustafsson ha passato una settimana al mese vivendo in macchina e viaggiando per la Finlandia, mettendosi in posa davanti alle telecamere del meteo in attesa che scattassero la fotografia in una sorta di performance artistica. Le immagini prodotte sono disadorne, tecnicamente sballate, quanto di più distante dalla consueta produzione fotografica; inquadrano sempre strade in genere senza traffico e senza persone, fatta eccezione per la figura spettrale di Gustafsson, generando un alone inquietante e straniante.
“Ho cercato di trovare un modo per fare arte in modo democratico, nel senso che può essere fatto da chiunque” scrive Gustafsson.
WEATHER CAMERA SELF PORTRAIT risponde a quasi tutti questi criteri, se si esclude la borsa di studio della Kone Fundation vinta per finanziare il progetto.
Gustafsson conclude dicendo che “Sto ancora cercando un modo per fare Arte che non richieda ne soldi, ne capacità specifiche”.
LIBERE CONCLUSIONI
Pur tra le varie differenze di stile dei vari autori, queste opere presentate possono comporre una sorta di mosaico rappresentativo di questo genere di fotografia.
Come abbiamo visto, un’idea fortemente concettuale e originale è servita a Gustafsson per ottenere una borsa di studio per finanziare il suo progetto, elevando una tipologia d’immagini basica a forma di autoritratti autoriali.
Trasformando il significato delle immagini, il lavoro di Henner sulle prostitute ai bordi delle strade si può definire una sorta di ritratti ambientati, la rielaborazione del paesaggio olandese, come il lavoro di Gursky sono due differenti modi di interpretazione del paesaggio, appunto.
Sia lui che Henner non intervengono in nessun modo nell’immagine, a differenza di Gursky, il quale manipolando fortemente un’immagine satellitare riesce a ricavarne un aspetto il più vicino possibile alla nostra immaginazione del reale.
Tante sono le domande e le riflessioni che ci poniamo davanti a questa modalità espressiva.
Decontestualizzare e ricontestualizzare in altro modo l’oggetto- immagine basta a fare di Henner un Artista, e come lui molti altri?
Esiste un limite alla ri-mediazione delle immagini?
Quanta autorialità c’è in questo genere di pratica?
Gabriele Bartoli
Animatore Culturale FIAF
Gabriele Bartoli pone con chiarezza ed eleganza una delle questioni centrali dell’arte del xx e del xxi secolo, ossia il peso dell’autorialità. O forse del dove si colloca l’autorialità, se nella realizzazione pratica o nella visione, nel concetto. Personalmente mi ritrovo in una visione “post-moderna”: per me c’è autorialità anche in opere che hanno uno scarso peso “materiale e realizzativo”, se colgono una questione fondamentale (sociale, intima etc.) e se hanno un impatto visuale di rilievo. Sono di certo in buona compagnia su questa conclusione (basta leggere Fontcuberta, tra i saggi influenti dell’ultimo periodo), ma comprendo anche come l’opposta visione (secondo cui l’autore si percepisce soprattutto nella realizzazione materiale e la sua originalità sta nell’oggetto più che nel concetto) sia validamente sostenibile.
Ciao Enrico, condivido il tuo commento.
Sappiamo bene che per produrre immagini oggi non bisogna essere fotografi e certamente non occorre una macchina fotografica.
Siamo nel post moderno, quindi nella post fotografia, di cui siamo inondati non appena utilizziamo un pc, smartphone, tablet ecc. L’immagine si fa liquida, fluida e i nuovi mezzi di ripresa utilizzano codici nuovi e diversi. L’Appropriation Art,o adozione di immagini nel nostro caso, è una nuova opportunità a nostra disposizione.
Ben vengano quindi dematerializzazioni, ibridazioni e tutto quello che la tecnologia ci consente, a patto che le nuove opere abbiano un senso e siano coerenti alla nuova ricontestualizzazione.
Ringrazio Gabriele, che molto spesso ci pone davanti a fotografi/autori/artisti che vanno oltre il mero concetto di fotografia.
Li chiamerei quasi “operatori culturali”, che ci pongono davanti agli occhi domande su dove potremmo arrivare in futuro. Il concetto di ready made nell’arte esiste da oltre un secolo, e credo che sia nostro compito e dell’artista portare sempre oltre e all’estremo questa modalità di operare nell’arte.
Le domande che Gabriele si pone credo che siano al centro del nostro vivere la fotografia e l’arte al mondo d’oggi. Amo questo artisti che mettono spesso in discussione il mio pensiero. Quindi ancora grazie a Gabriele che mi sprona a meditare.
Valeria
È sempre viva la sfida al concetto di originalità da Sherrie Levine, e non solo, fino ad oggi, con i mezzi del nostro tempo. Questa è fotografia contemporanea in cerca di nuova originalità. Importante riflessione, Gabriele.
Le conseguenze del pensiero di Marcel Duchamp, a cento anni dalla sua definizione (con l’occultamento dell’autore nel ready made delle sue opere più famose (la ruota, la fontana, ecc..dal 1912 al 1919) tanto scandalose nell’ambiente artistico) hanno trovato nell’immagine tecnica diffusa sul WEB un territorio semantico straordinario. Queste opere ne sono un bell’esempio.
E’ importante avere il quadro storico del pensiero artistico perché i fondamenti che ancora oggi mettono in crisi l’idea d’Arte sono sempre quelli.
Considerate le radici concettuali, ci liberiamo da ogni indugio e godiamo legittimamente della magia che questi processi di conoscenza, posti in essere con la fotografia pubblica dei siti internet.
Complimenti a Gabriele Bartoli per l’efficace esposizione che ci apre la coscienza sul ruolo di questi occhi artificiali che ci stanno cambiando il senso della nostra vita privata, che vediamo sempre meno privata.
La libertà di pensiero e di realizzazione coinvolge ogni espressività artistica; le regole mal si addicono a questo mondo che, non dimentichiamolo, è fatto di pensieri.
La fotografia ben si presta ad attività di costruzione nate da riflessioni concettuali ma, anche, a trasformazioni materiche. La fotografia come oggetto d’uso/materiale.
Anche noi, lettori di portfolio, ci troviamo sempre di più di fronte ad approcci simili con risultati, a mio pensiero, estremamente creativi e ricchi di contenuto. L’uso della fotografia allo scopo di ricostruire un nuovo pensiero/concetto.
Mi viene da dire: ne vedremo delle belle! Ma l’arte è questo e va bene così.
Grazie Gabriele!