NOMADELFIA – di Enrico Genovesi
Dai termini greci nomos e adelphia, che significa: “Dove la fraternità è legge”.
Nomadelfia è un popolo comunitario, più che una comunità, ed è situato vicino alla città di Grosseto in Toscana (Italia). Un piccolo popolo con una sua Costituzione che si basa sul Vangelo. Fondata nel 1948 nell’ex campo di concentramento di Fossoli da Don Zeno Saltini, il suo scopo: dare un papà e una mamma ai bambini abbandonati.
Nomadelfia ha una sua storia, una sua cultura, una sua legge, un suo linguaggio, un suo costume di vita, una sua tradizione. E’ una popolazione con tutte le componenti: uomini, donne, sacerdoti, famiglie, figli. Per lo Stato è un’associazione civile organizzata sotto forma di cooperativa di lavoro, per la Chiesa è una parrocchia e un’associazione privata tra fedeli.
In Nomadelfia tutti i beni sono in comune. Le risorse economiche provengono dal lavoro, dai contributi assistenziali per i figli accolti, e dalla provvidenza, specialmente attraverso le attività di apostolato: stampa, serate, incontri.
Nello spirito dei consigli evangelici la popolazione di Nomadelfia conduce una vita caratterizzata da “sobrietà” cioè secondo le vere esigenze umane. In Nomadelfia non circolano soldi. Non ci sono negozi ma soltanto magazzini. I generi alimentari vengono distribuiti ai gruppi familiari in proporzione al numero delle persone e secondo le necessità dei singoli. Anche per i vestiti i nomadelfi attingono dal magazzino, nei limiti delle reali necessità.
Enrico Genovesi
NOMADELFIA
di Enrico Genovesi, foto (2017-2018)
Nomadelfia – Il progetto completo. (pdf scaricabile)
Grazie per questo pdf scaricabile che mi da la possibilità di poterlo rivedere ogni qualvolta ne sento il desiderio. Un bellissimo lavoro che racconta con l’inconfondibile stile di Enrico una realtà talmente diversa dall’ordinario da risultare forse anche difficile da comprendere, ma che testimonia che sono possibili altre strade fuori dall’individualismo e dall’egoismo che caratterizzano molto spesso il nostro tempo.
Il progetto di Enrico mi ha fatto rivivere l’esperienza che feci nel 2008-2009, in occasione di una mostra fotografica di un figlio di Nomadelfia, che aveva sempre vissuto a Carpi.
L’atmosfera, le persone, il clima che ho respirato allora, l’ho rivisto in queste immagini. La pace, la tranquillità, la spensieratezza, la vita quotidiana, le cose fatte assieme, in “comunione”, è quello che traspare dalle immagini di Enrico. Si percepisce il pathos, l’atmosfera, la religiosità di Nomadelfia.
Al di là del mio coinvolgimento personale, ho giudicato questo progetto centratissimo, da sempre. Una famiglia fra altre famiglie, all’interno di una grande famiglia, Nomadelfia.
Ancora complimenti.
Ciao, Danilo, Grandangolo di Carpi.
“Nomadelfia” è stata la scelta tematica di Enrico Genovesi per affrontare il tema nazionale “La famiglia in Italia”, in veste di Testimonial FujiFilm.
Una scelta tematica in linea con il suo percorso di autore che ha sempre rivolto grande attenzione al territorio regionale toscano. Nomadelfia si trova nei dintorni di Grosseto.
Una scelta impegnativa, perché questa Comunità è stata fotografata fin dalla sua fondazione da numerosi importanti fotografi italiani, tra i quali: Federico Patellani, Ugo Mulas e Giorgio Lotti.
Beppe Lopetrone era figlio di Nomadelfia, diventò un importante fotografo di moda operando tra Carpi (MO) e gli USA e non si staccò mai dalla comunità, e diede un importante contributo nella realizzazione del libro commemorativo “Don Zeno”.
Passano le epoche e “Nomadelfia” è sempre lì, con la realizzazione quotidiana della sua Utopia ispirata al Vangelo che in ogni epoca ha sollecitato le coscienze col mostrare realizzati nei comportamenti sociali i valori cristiani.
La quantità di immagini che Enrico Genovesi ha realizzato è importante, sopratutto per l’ampiezza tematica che egli è riuscito a raggiungere con una frequente presenza nell’arco di oltre un anno, cogliendo così le ritualità e gli eventi che si sono avvicendati.
Per Agorà Di Cult ha scelto una breve sequenza rivolta alle giovani generazioni. Anche questa sensibilità verso la coerenza dell’opera ci parla della maturità progettuale da lui raggiunta. Trovate però anche un documento (pdf) che vi aiuterà a capire questo straordinario soggetto.
Le sue immagini di Nomadelfia hanno la forza narrativa del fotogiornalismo contemporaneo che riesce con grande capacità a entrare in empatia con le persone e le atmosfere di relazione umana e dell’ambiente naturale che è prevalente nel paesaggio.
Il linguaggio dell’autore è sempre in evoluzione e in ogni progetto si dilata con nuovi concept formali, in questo caso mi ha colpito il sentire sia l’intesa del gruppo che la forza del protagonismo individuale.
Grande cura è riposta nella composizione: con la scelta della posa, del taglio degli effetti metaforici che l’intreccio dei valori visuali inducono. Tutto questo ci parla di uomini d’oggi che guardano al domani, non senza difficoltà, ma con uno spirito comunitario che raramente conosciamo nel nostro quotidiano ordinario.
Complimenti a Enrico Genovesi per questa nuovo straordinario progetto che, conoscendolo, immagino non si fermerà qui.
Non conosco così a fondo la realtà di Nomadelfia da poterla capire con le mie facoltà. Certo, leggendo e informandomi sul tema con tutte le notizie che la realtà ci offre, mi sono fatto un’idea approssimativa che però, appunto perché approssimativa, estrae alcuni elementi, sicuramente a scapito di altri.
Grazie al lavoro di Enrico Genovesi, un certo immaginario che facevo fatica a focalizzare mi è venuto incontro e si è realizzato come una contraddizione. Certe immagini hanno scavato in me un profondo senso di fragilità, sia emotiva che etica: l’estrema finitezza del mio essere mi rende difficile immaginare un’esistenza del genere, sono quasi certo che mi sarebbe impossibile condividerla eppure vedo, con occhi però strettamente da fotografo, che qualcosa c’è. C’è la realizzazione di un pensiero (niente denaro, comunanza, “ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”…) che, senza alcun dubbio accanto a quello del Vangelo e più precisamente degli Atti degli Apostoli, si è realizzato parecchi secoli dopo con un pensiero politico che, a quanto pare, ha avuto e continua ad avere molti motivi di ragione. D’altro canto, la forza sovraumana del pensiero utopico mi sferza e mi travolge. Mi fermerei qui, col mio pensiero su Nomadelfia; proverò a concentrarmi sulle immagini e vedere se le due cose, mio pensiero ed immagini, riescano a stare insieme.
Parto da un caposaldo narrativo (che già conoscevo e che nella sequenza qui pubblicata trovo nella quarta fotografia) dove lo sguardo perso di quel ragazzino, nel momento di raccoglimento che precede il “cambiamento dei gruppi familiari”, apre squarci di significati e illumina l’intero senso della sequenza. E’ guardando quella perplessità (e il simile dubbio negli occhi del ragazzino/albero della prima foto) che si capisce perché lavorare fotograficamente su certe storie può insegnarci molto. Molto spesso la Storia, che tutti noi credo vorremmo non perdere mai, ci fa umani con i grandi eventi, le lotte, gli eroi solitari, le conquiste, i progressi. Quasi sempre, però, sono i piccoli momenti, le parentesi tra le fanfare che rischiano di scomparire senza che nessuno li veda; senza che se ne sappia niente.
I sentimenti che ci fanno umani sono difficilissimi da cogliere (impossibili?) con le immagini perché la psiche è più vicina alla forma scritta dalla letteratura che non a quella della luce fotografica. Per questo ci stupiamo così tanto di fronte alle immagini che ci mostrano l’anima delle cose, la loro “interiorità”. Ecco, forse è questo un altro elemento che estraggo dal lavoro di Genovesi e lo faccio stavolta dalla foto n. 9, quella dei ragazzi distesi a riposare nella loro stanza: l’interiorità la colgo non nella sontuosa noia dei ragazzi nomadelfici che irraggia ogni centimetro della stanza (e che i nostri, comandati in ogni istante dai loro device tecnologici non conoscono più, accidenti a noi!) ma nelle scatole dei giochi appoggiati sullo scaffale, nell’angolino in alto a destra. Lì dentro immagino le loro mani che si posano durante il gioco, il loro essere che si realizza in un momento chiassoso fatto di gioia e rumore di ragazzi, di esseri umani in divenire, di relazioni che si costruiscono in quel mondo che, attenzione!, forse neppure si sono scelti. E quindi cosa ci racconta ancora questo lavoro? Che anche quando scegliamo un’inquadratura, una profondità di campo, il taglio del soggetto stiamo facendo qualcosa che vogliamo fortemente e razionalmente o qualcosa che ci chiama, che “ci spinge a”? Che ci educa, forse?
Ecco, io immagino questo tipo di riflessione attorno ad un lavoro come questo. E non si può aggiungere molto all’analisi critica di un fotografo che sa inquadrare e tagliare, che sembra conoscere le regole simboliche e proporzionali della pittura rinascimentale (e poi le supera), che sa illuminare anche le ombre senza toglier loro un briciolo di oscurità, che sa raccontare. Punto. Ma una narrazione differente ha bisogno di coraggio e il coraggio lo si trova nella semplicità del gesto, nessuna costruzione è più autentica di quella che ci chiama. Il coraggio è stare insieme alle cose, dentro le utopie quando ci sono e inventandosene altre se sarà necessario. Questo le immagini di Enrico Genovesi mi raccontano, un pensiero che abbraccia prima ancora di pensare.
Per chi come me abita a Grosseto, Nomadelfia e’ la croce che spicca dal colle mentre scendi giu’ dalla senese e arrivi nella Maremma grossetana . Una croce, un popolo, una storia. Il progetto di Enrico ci fa entrare in questo mondo così tanto reale e allo stesso tempo così tanto ideale . La gioventù che ci mostra e’ coetanea dei mie figli , ma lontana mille mondi dalla loro vita quotidiana. Nelle immagini qui selezionate risalta fortemente il senso di appartenenza e di fratellanza , e mi interroga su quello che spesso sono i giovani oggi . E’ un racconto meraviglioso, complimentissimi ad Enrico, che con queste immagini ci mostra lo spirito di questa piccola grande comunità .
Trovo che Nomadelfia sia un lavoro molto ben realizzato. La sequenza di foto accompagna il lettore con fermezza spiegando per bene il progetto sociale. Ho avuto come l’impressione che ogni foto fosse una pennellata di quelle decisive in un quadro impressionista. La foto di apertura è quella che esprime al meglio tutto il progetto. Immagino infatti Nomadelfia come una realtà che esiste all’interno di una bolla di vetro. Una società con proprie leggi all’interno di un’altra società con altre leggi pur non andando in conflitto. È difficile parlare solo del lavoro fotografico e non prendere una posizione nei confronti di una realtà del genere, se non altro per non esserne condizionati nel giudizio. Tuttavia lo scopo di Nomadelfia è nobile e tanto basta. È evidente come ogni foto sia una sintesi di un’idea maturata e non frutto di un istinto del momento. Mi è piaciuto molto il fatto di aver scandito con decisione alcuni momenti della vita che sono tipici di quella comunità ma non di quella che li contiene. Complimenti a Enrico Genovesi per il suo lavoro delicato e rispettoso su un tema potente.
Sono grato all’Autore che in un paio di occasioni ha saputo trascinarmi dentro ogni sua singola immagine, sapendo con le sue emozionanti e partecipi parole mostrarmi quel poco che non si vede già. Tematica, soggetto, portfolio, immagini a livello dei maestri della Fotografia. Ogni volta che lo guardo mi meraviglio per la sua bellezza.
Un grazie, davvero, di cuore, per le belle parole che tutti voi avete espresso.
Come ben sapete, queste poche immagini pubblicate non sono che una estrema sintesi di un lavoro che, iniziato a metà 2017 su input del progetto nazionale FIAF “La Famiglia in Italia”, continua tutt’oggi in quello che oramai posso definire un mio “long time project”.
Un grosso impegno sì fotografico ma soprattutto una nuova, significativa, esperienza di vita.
Nomadelfia è un luogo che ci affascina e ci pone domande. Ci mette di fronte a un modo nuovo di concepire e di vivere l’esistenza e i rapporti con gli altri.
Io però non ci sono stata a Nomadelfia. Non ho visto le casette e gli ulivi intorno. Ho invece guardato con attenzione e infinito piacere le fotografie di questo bellissimo reportage. Che mi ha fatto meravigliare per la capacità che ha avuto l’autore di guardare e di condividere il suo sguardo con noi. Per l’acume e la sensibilità con cui ha saputo cogliere quegli aspetti in grado di costruire un racconto convincente e coinvolgente.
Le fotografie della serie non si offrono a noi come semplici immagini raccolte da un testimone. Ci propongono dell’altro: fare esperienza di una possibilità diversa di stare al mondo. E’ un sentire che nasce spontaneo vedendo le scene di vita comune – il pranzo insieme, la festa, il matrimonio – e si acuisce di fronte ai carretti con le masserizie al momento del trasloco, segno di un’intimità che sceglie di farsi sempre comunità; di rinunciare non alle radici, ma alla prigione della loro immobilità. Di una comunità insediata e nello stesso tempo nomade, fondata sui piccoli esodi richiesti da una fratellanza totale. Ed ecco che in una fotografia ci vengono incontro, nella loro placida semplicità e innocente geometria, i materassi trasportati per le stradine di campagna da un adulto e da un bambino: poteva un’immagine essere più essenziale e nello stesso tempo più traboccante di significato?
Tutte le fotografie creano un piccolo poema epico, che non celebra ma si offre in dono. Enrico Genovesi sembra, con le sue immagini, aver accolto la filosofia solidale di Nomadelfia e farcene partecipi, condividendo con noi qualcosa che in realtà non può appartenere a nessuno. Anche i suoi scatti hanno bandito l’idea del ‘prendere’: non cercano il possesso del soggetto, ma lo preservano nel loro limpido mistero. Lo si capisce dal modo con cui ha saputo riprendere l’anima della comunità, cioè i bambini, che compaiono nella maggior parte delle fotografie. Nei due visi giovani di quella che apre la serie, irradiati dall’energia vitale di un albero riflesso nel vetro del finestrino, c’è una potenza di racconto che tuttavia non si può raccontare, che bisogna solo sentire, con la forza del sangue che ci circola dentro e si ramifica nel corpo.
E la stessa potenza di racconto ritroviamo nell’immagine che ritrae lo sposo sospeso in aria, in una surreale posizione orizzontale, con le mani giunte e nello sguardo tutta la gioia e la fiducia in quelle braccia protese e pronte a prenderlo al volo.
Sembra che uno degli interrogativi che si pongono queste fotografie sia: posso io qui trovare l’individuo? O esiste solo il ‘noi’ delle posate ammucchiate, dei panni stesi, delle ombre dietro le quinte di uno spettacolo, delle mani sollevate che si aiutano a vicenda? E si mette in cerca, e trova. Non l’individuo, però, con il suo alone di solitudine. Trova la persona, la sua aura di completezza, l’armonia della sua relazione con l’ambiente che lo circonda. Nell’espressione concentrata di una ragazza che legge il programma giornaliero; in un bambino con le braccia aperte contro la parete, mentre gioca a nascondino nel cortile della scuola; negli occhi socchiusi e nel viso sorridente di una donna anziana, con le mani dietro la schiena, appoggiata a un tronco d’ulivo da cui sembra trarre la sua forza; nel volto pieno di luce di un altro bambino che attende di esibirsi nello spettacolo.
Tutti nello stesso tempo attori e spettatori, gli abitanti di Nomadelfia. Ognuno ha il suo posto e il suo compito. In ogni aspetto dell’esistenza: dalla tavola, alla festa alla morte. Tutti i bambini partecipano a uno spettacolo di danza così come a un trasloco o a un funerale: le fotografie dispongono in sequenza questi momenti, per farci capire che non ci sono aspetti della vita messi da parte e occultati. Tutti sono chiamati a prenderne parte e ogni esperienza ha la stessa dignità delle altre.
Forse nessuno di noi sceglierebbe di abbandonare la sua casa e di trasferirsi a Nomadelfia. Ma queste fotografie meritano tutta la nostra disponibilità a intraprendere un viaggio con loro. Perché ci portano all’interno del rimpianto per qualcosa di cui sentiamo la mancanza e nel cuore di una speranza: quella che l’utopia è possibile e che l’egoismo non è poi una condanna definitiva della nostra condizione umana.