ArchivioDai tavoli di portfolio
NOMAS – di Martina D’Agresta
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La parola “nomade” deriva dal greco “nomas”, che significa pastore.
La pastorizia e il nomadismo sono condizioni che devono sovrapporsi fino a coincidere, se si vuol sopravvivere in una regione inospitale come quella del grande Gobi.
Martina D’Agresta
NOMAS
di Martina D’Agresta
“NOMAS”, di Martina D’Agresta, è un’opera animata da un’idea narrativa tematica, per l’interpretazione soggettiva data alla vita di una piccola comunità di etnia mongola improntata alla rappresentazione del loro stile di vita.
Cosa vuol dire narrare? Questa non è una domanda scontataria in letteratura sia in fotografia o agni altro linguaggio. C’è una costante che ogni narrazione, al di là della sua natura, deve raggiungere: essere compiuta.
La compiutezza si raggiunge nel dare, da parte dell’autore, tutti gli elementi che costituiscono il messaggio che desidera formulare. Se è un messaggio avrà un contenuto!
E’ proprio il contenuto che crea la difficoltà nel leggere: perché se è facile vedere la compiutezza in un’opera chiusa (dal significato unico e difinito) è molto più sfuggente vedere la compiutezza se l’opera è aperta (dal significato molteplice, lasciato anche alla soggettività del lettore).
“Nomas” è un opera chiusa che è stata realizzata con la finalità del reportage rivelatore di una realtà: come vive la popolazione nomade in Mongolia. Essa potrebbe essere un buon materiale giornalistico, per l’ampia gamma di contenuti che comunica con solo 17 foto.
Infatti troviamo un percorso narrativo che dall’esterno, alla comunità, esplora con forte sintesi verso l’interno, esplorando: le modalità con le quali organizzano la loro vita, fino a cogliere la poesia presente nella loro esistenza. Sono rappresentati: il rapporto uomo-donna, il rapporto generazionale, il rapporto simbiotico con la natura e in particolare col gregge, il rapporto con le tecnologie della modernità, l’allerta per la sopravvivenza e la pienezza raggiunta nel dominare il gregge.
Ciò che distingue il didascalico documentario, dalla narrazione documentaria, sono le attenzioni ai segni che ci parlano della vita interiore delle persone incontrate e diventano narrazione di moti dell’animo umano: dal primo ritratto simbolico del ruolo maschile sempre in allerta e poi mandriano, il ruolo della donna occupata nei lavori domestici e nella tosatura degli animali.
Martina D’agresta non ci ha mostrato solo come vive questa comunità, è andata oltre dando i segni delle ragioni della felicità e della preoccupazione. Ecco che ora possiamo anche noi entrare in empatia con questa comunità che conduce uno stile di vita arcaico ma che con la motocicletta e il pannello solare ha saputo prendere dalla modernità gli strumenti per migliorare la propria qualità della vita.
Questo è il secondo portfolio di Martina D’Agresta che sta crescendo nelle alte atmosfere culturali del Circolo FBN di Cecina. Grazie a lei per aver condiviso questa opera.
Il lavoro “Nomas” di Martina D’Agresta è quello che si dice un perfetto racconto documentario sulla vita dei pastori nomadi della Mongolia. Questo racconto è centrato sulla accurata descrizione dei personaggi con la definizione dei loro ruoli lavorativi e sociali all’interno della comunità,e sulla simbiosi tra uomo e animale che in queste realtà è necessaria quanto inevitabile. Il tutto descritto servendosi di una fotografia lucida ed accurata nei toni e nella composizione, mai urlata nè esasperata con postproduzioni troppo arrembanti come purtroppo si vedono sempre più spesso.
Vivissimi complimenti all’autrice.
Lavoro dal significato immediato, pulito e dai colori decisi: impossibile non capire.
Immagini senza tempo, dove l’unico orologio è il sole.
Un luogo senza confini evidenti, in una zona desertica per antonomasia.
Una scelta di vita di un intero nucleo familiare in un completo isolamento che farebbe impazzire chiunque ma che in quest’opera è mostrata in tutta la sua normalità.
È un po’ come essere in un altro pianeta.
Bellissimo, complimenti Martina!
Reportage interessante che ti porta alla scoperta di questo popolo nomade, bella e significativa la prima immagine del portfolio, il binocolo ci accompagna dentro il racconto. Complimenti Martina
Uno stile di vita arcaico nel quale si segnalano però alcune concessioni alla modernità: la moto, il pannello solare, la televisione, il binocolo. E’ interessante questo connubio tra antico e moderno perchè ci segnala come il richiamo delle sirene della modernità sia irresistibile anche per chi è nato e vissuto in una comunità, e quindi in una cultura, organizzata su modelli arcaici e tradizionali. Le spinte dell’economia a un benessere, spesso fittizio, hanno vita facile nei confronti di modelli di vita che mettono in primo piano la necessità, il saper affrontare la durezza della vita, il sacrificio, la rinuncia, la perseveranza, il lavoro e la famiglia (e/o il clan) come valori imprescindibili dell’essere uomo. Noi siamo immersi in un surplus di benessere a causa di un atteggiamento consumistico indotto dall’ideologia del profitto e questo genera spesso disorientamento e disgregazione nelle nostre culture nonostante che a quel surplus siano arrivate gradualmente. Per quei popoli che vi si trovano a contatto in maniera molto meno graduale esiste forte il rischio di una distruttiva perdità di identità culturale con tutto ciò che ne consegue sul piano individuale e collettivo. Se la propensione al benessere può essere considerata come parte integrante, “genetica”, dell’animo umano (ogni uomo tende a stare bene) e quindi tendenzialmente naturale, la corsa al superfluo, che caratterizza l’epoca moderna e produce conseguenze di cui abbiamo cominciato ad assaggiare il sapore amaro, è invece un portato del capitalismo sfrenato e del consumismo che ne deriva. La sfida del futuro sarà quella di riuscire a coniugare modi di produzione e benessere in modo da rispettare l’uomo e la natura. Tornando alle foto di Martina, mi piacciono la semplicità e la naturalezza con cui riprende i suoi soggetti, senza forzature di ripresa e di colore. In questo modo dà risalto a una vita sì dura, agli antipodi rispetto alla nostra, ma vissuta, sembrerebbe, con una serenità che spesso non ci appartiene. Il lavoro inizia con la foto dell’uomo che guarda nel binocolo. La seconda foto ci pone sulla strada per entrare nel vivo della comunità. Quel binocolo è uno sguardo dentro la comunità. Io avrei messo l’altra foto col binocolo per ultima a testimoniare che lo sguardo è rivolto altrove, verso un futuro e un tipo di vita diversi. Ma naturalmente questo è il mio personalissimo punto di vista e Martina ha tutte le ragioni di questo mondo nel valutare diversamente la questione.