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DUANE MICHALS_ Seconda parte – a cura di Michele Di Donato

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In “Breve storia della fotografia”, il filosofo Walter Benjamin ha dichiarato che l'”inconscio ottico” è una delle rivelazioni della fotografia, la capacità tecnica della macchina fotografica di rendere visibile ciò che di solito sfugge alla percezione. Michals esplora proprio questo: ciò che è nascosto, non visto o fuori dall’inquadratura, a cui fa riferimento in diversi ritratti, come in “Andy Warhol” (1958) con le mani sul viso e “Magritte” (1965)  con la mano sul viso che espone un occhio.

 

Le sue fotografie hanno l’autorità talismanica di rendere visibile ciò che non si vede e di permetterci di vedere metaforicamente oltre la rappresentazione letterale. Nelle parole di Michals: “Credo nell’immaginazione. Ciò che non posso vedere è infinitamente più importante di ciò che posso vedere“. In “The illuminated man” (1968), la figura proietta la pura energia dell’inconscio ottico. “Con quest’uomo volevo fare un quadro in cui si potesse vedere la mente che lavora“. Michals ritiene che la mente sia luminosa. In “The human condition”(1969), un insieme di sei immagini, un uomo sulla banchina della metropolitana esplode oltre la sua forma umana in una sorta di diagramma astronomico della Via Lattea.

 

 

Diverse sequenze di Michals, come “The Spirit Leaves The Body” (1968), hanno una costruzione circolare; ad esempio, la celeberrima sequenza, “Things are Queer” (1973) è un enigma spazio-temporale circolare in cui, invece di andare avanti, la macchina da presa e lo spettatore sono trascinati all’indietro in un continuum spazio-temporale in cui Michals ci costringe a interrogarci su cosa sia davvero la realtà. “Things Are Queer” presenta un ciclo infinito di fotografie che iniziano e finiscono con un bagno nel quale c’è la fotografia di un uomo che legge un libro che contiene la fotografia del bagno. Sebbene nessuna delle immagini sembri palesemente queer, Michals, usando la parola queer, è chiaramente consapevole di quell’aspetto delle fotografie. Dopotutto, cosa potrebbe esserci di più strano di un ciclo infinito di un bagno, un uomo e un vicolo?

 

 

Cosi’ come in ”Things Are Queer”, molte delle fotografie di Michals contengono un simile senso nascosto e codificato di queerness. Nella serie fotografica “Paradise Regained”, in cui un uomo e una donna sembrano tornare nel Giardino dell’Eden, e anche qui Michals sottolinea la centralità della figura maschile, mettendo in evidenza la bellezza sensuale della sua forma nuda e, celebrando la condizione umana.

 

 

Qualunque immagine realizzi, qualunque tema affronti, Michals celebra la condizione umana. “Vorrei che ci rendessimo conto che siamo creature queer. È una vita da queer. L’universo è queer“. Le fotografie di Michals descrivono proprio la queerness attraverso termini metaforici e una rappresentazione altamente romantica del desiderio dello stesso sesso e del corpo maschile; che informa gran parte del lavoro di Michals accentuato dalle influenze artistiche, incluso il suo amore e ammirazione per Walt Whitman.

Sebbene le opere di Michals non siano esteriormente politiche, molte delle sue serie rivelano simbolicamente le realtà sociali della queerness. Ad esempio, nella sua fotografia “The Unfortunate Man”, Michals fotografa un ragazzo dai capelli ricci di spalle, piegato all’indietro con gli stivali alle mani. Sotto la fotografia, Michals scrive: “Lo sfortunato non poteva toccare la persona che amava. Era stato dichiarato illegale dalla legge. Lentamente le sue dita divennero dita dei piedi e le sue mani gradualmente divennero piedi. Cominciò a indossare le scarpe sulle mani per mascherare il suo dolore. Non gli è mai venuto in mente di infrangere la legge”. Come succede ai ragazzi cattivi di Pinocchio nella Città dei Balocchi, il “condannato Sfortunato” appare trasformato dai suoi desideri illeciti.

 

Le sequenze di Michals sono piene di fantasmi, di intimità fuori dal comune, di donne nubili e di uomini “deliziosi” (Michals è gay e ha appena festeggiato il 56° anniversario di matrimonio con il suo compagno). Affrontando temi come la morte, il desiderio e il passare del tempo, il suo lavoro scruta dentro di sé per esaminare i suoi pensieri e i suoi sogni, per sfumare i confini tra fotografia e filosofia.

C’è un’energia nebulosa nei suoi scatti; le fotografie hanno un elevato contrasto e i soggetti sono inquadrati molto da vicino, conferendo alle sequenze una qualità quasi claustrofobica, come se la vita e l’energia venissero manipolate delicatamente ma forzatamente intorno a noi. Le fotografie di Michals raramente “respirano” liberamente e si ha la sensazione di essere quasi intrappolati nei loro spazi.

 

Poi c’è il testo. Mai utilizzato in modo eccessivo nelle sequenze (il titolo assolve da solo a questo compito), le singole immagini sono estese in una narrazione più lunga grazie a parole pungenti e toccanti; frasi che pronunciano crude verità e dicono come stanno realmente le cose. Credo che nessuno possa guardare l’immagine e leggere il testo di “A Letter from My Father” (1960 / 1975) senza pensare ad un padre violento e chiedersi che fine abbia fatto il suo amore; per qualsiasi bambino diventato adulto, che ha subito abusi, l’immagine arriva fin dentro le ossa.

Michele Di Donato

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