Laboratori Di Cult

TOTEM e TABU’_Anteprima_19 – a cura di Tiziana Mostropasqua e Paolo Caivano

LAB Di Cult 172 FIAF

A volte, un Lab di Cult è un pot-pourri dove i lavori di tutti imboccano da subito quella strada ampia che porta a un lavoro armonico sul tema scelto. Altre volte, invece, il Lab è lo spazio dove la fantasia e l’estro dei partecipanti imboccano viuzze laterali dove la ricerca del filo rosso è un lavoro assai arduo, ma per questo ancora più  elettrizzante. E anche questa volta non ci siamo smentiti.

 

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C’è chi ha voluto affrontare l’ultimo tabù, quello della morte, come Alda Spanò che ci parla del suo intreccio con la vita inestricabile ed eterno. Colpevolmente smemorata, per la società contemporaneo la morte è ancora un tabù, un trauma da superare. E allora non ne parliamo, della morte, è deprimente, ansiogeno, addirittura pornografico. In un’epoca che esalta la giovinezza, la bellezza, l’efficienza e il successo, non c’è posto per la morte. Eppure la morte insegna a vivere, dà una direzione alla vita, fa luce su ciò che si è e ciò che si vuole. E i cimiteri, sempre più soli, possono essere luogo di riflessione e comprensione, oltre che di silenzio e preghiera.

 

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Ma anche luogo in cui – ci ricorda Alberto Mazzarino – l’arte riesce a trasformare la preghiera in ricongiungimento dei vivi e dei defunti per affrontare insieme il dolore della separazione. La bellezza della pietra a ricordo della bellezza dell’anima dei morti, levatrice di conforto e consolazione, forza che unisce, pietoso aiuto per esorcizzare la morte. La bellezza che rende immortali e quasi addolcisce l’inevitabile passaggio in cui vita e morte sembrano confondersi.

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E di passaggio e confusione ci parla Ludovico Brancaccio nel suo lavoro sul lago d’Averno,  incrocio di miti, porta d’accesso all’oltretomba, dimora di Lucifero, selva oscura del poema dantesco. Un luogo che dialoga con la morte in un modo in cui non ci è più concesso da quando siamo diventati adulti. E il fotografo non può fare altro che accostarsi al mistero con la consapevolezza di essere vivo e, proprio per questo, inadatto alla comprensione. Prova allora l’unica soluzione possibile, forare fisicamente il velo che ci separa dalla morte e, da quel buco, far passare quel tanto di luce che ci è permesso osservare.

 

Sulla separazione lavora anche Alfonso Pone, che affronta il dolore della morte con l’unico strumento possibile, quello della poesia. E si cuce ali d’angelo per portare in volo chi, nel momento dell’addio, ha voluto essere il suo pensiero felice. Un lavoro che scava dentro il sé per accettare la separazione e l’infinito dolore che comporta.

 

 


Del sé e della separazione tra essere e rappresentazione ci parla anche Francesca Paola Cilento. Nelle sue scansioni la fotografia sostituisce la pittura e svela i brandelli del Dorian Gray che alberga in ognuno di noi.  Immagini che scavano nel suo specchio da bambola e ri-trovano un’estranea. Tracce-segni-solchi che disegnano una mappa di vicoli-strade-incroci per  affrontare il tabù dell’accettazione del tempo.

 

 


Nel tempo dell’oggi ci trascina con forza Luigi Montefoschi con fotografie da giornale tabloid che tuonano della realtà distopica che tutti circonda e avvolge. Immagini vivide di luoghi che sono la reificazione dei totem sociali, visione oscena delle segrete stanze del potere. La fotografia capace di vedere oltre e di denunciare che il re può – anzi, deve – essere denudato. Il totem è morto, e allora viva il totem.

 

 


Ma il potere sa come nascondersi e dispendersi in mille rivoli senza perdere memoria e identità. Si è diluito e atomizzato fino a trasformarsi in un’idea, anzi l’Idea più seduttiva del momento, l’Intelligenza Artificiale.
Cosa c’è di più totemico che rappresentarsi come espressione onnisciente di sapere autonomo e però imperscrutabile ai suoi stessi sacerdoti? Bruno Stefanile ci mostra la separazione tra realtà e iper-realtà, e immortala momenti quotidiani di apparente normalità sotto l’occhio vigile di un Grande fratello che non solo osserva ma rende possibili, ancorché alieni, quei momenti stessi.

 

 

Anche Giuliana Tregua parla di alienazione, pescando l’attimo in cui nemmeno l’Arte riesce a ricomporre lo iato tra l’essere e la sua rappresentazione. I suoi scatti rivelano una comunità fatta di singoli in perenne interconnessione ma inevitabilmente soli. Si nasce soli, si vive soli, e soli si comunica ad altri soli il proprio stato di piantatore di bandierine nei luoghi del mondo. Spalle all’arte, spalle alla vita, separati da un algoritmo che non appaga le nostre solitudini ma, anzi, scava voragini e trincee.

 

 

Infine Aurelio Raiola, che propone una storia di separazione reinterpretando il classico sedotto e abbandonato, dove il protagonista viene sedotto da una storica macchina da scrivere – la Lettera 22 che un giorno sarà esposta al MOMA – e poi, col tempo, la abbandonerà a un destino di bellissimo oggetto (non più) del desiderio, sorpassato dalla modernità e sepolto dalle mille cianfrusaglie della vita

 

 

Come dicevamo all’inizio, ogni partecipante al Lab ha seguito il suo pensiero e costruito la sua strada lastricata dei suoi totem e dei suoi tabù. Ma un il filo rosso che traccia una linea sottile e che accomuna tutti i lavori c’è. Puoi chiamarla in modi diversi: separazione, perdita, addio.  In una parola, morte. E c’è stato chi ha suggerito di titolare il lavoro collettivo con un motto napoletano che sa di imprecazione con il punto esclamativo: chi ti è muorto! Ma questa è un’altra storia.

Testo a cura di Aurelio Raiola e Paolo Caivano

 

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