Il collodio – di Enrico Maddalena, II° e ultima parte

Il collodio – di Enrico Maddalena, II° e ultima parte

 

5 settembre 2008

Mia moglie è a scuola ed i figli dormono. Un clima di grande tranquillità e silenzio, l’ideale per trasformare il bagnetto del grottino in camera oscura e rimettersi al lavoro.
Ho steso la tovaglia di plastica sulla lavatrice e vi ho messo la vaschetta con lo sviluppo, quella con il fissaggio e quella con la soluzione di nitrato d’argento. Il fissaggio è limpido e credo sia ancora attivo. Sono salito sul balcone sud ed ho puntato la camera obscura nuovamente sul palazzo di fronte. Ottima luce, splendidi giochi d’ombra. Al centro un balcone con una cornice di gerani fioriti e sotto un’auto ed una bicicletta che scintillavano al sole. Ho inquadrato con attenzione, ho messo a fuoco memorizzando la posizione del riferimento e sono sceso giù a sensibilizzare la lastra di vetro che ho pulito prima con dell’alcool. Messi i guanti di lattice, ho versato il collodio sulla lastra, muovendola per distribuirlo per bene e scolando dopo un po’ l’eccesso di liquido in un barattolo di vetro. Ho dato una rapida occhiata alla superficie: la stesa era uniforme, molto meglio che nel mio primo tentativo. Lampada di sicurezza ed immersione della lastra nel bagno di nitrato d’argento. Dopo circa un minuto è divenuta lattiginosa, segno dell’avvenuta reazione con formazione dello ioduro d’argento. Altri trenta secondi nel bagno che tenevo in leggera agitazione alzando ed abbassando la vaschetta per un angolo, poi rapido risciacquo per immersione in acqua, inserimento nello chassis e via al piano notte per l’esposizione. Questa volta ho esposto per un minuto quindi, rimesso il tappo sull’obiettivo ed abbassato il volet, sono corso in camera oscura.
Di tanto in tanto scrutavo la lastra immersa nell’acido gallico, certo di veder apparire i primi neri. Passa un minuto, due, tre… niente. Aspetto ancora ma non appare il minimo accenno di annerimento.
Cerco di capire cosa possa essere avvenuto. La soluzione di collodio e quella di nitrato d’argento debbono essere buone, visto che la reazione di precipitazione è avvenuta. L’acido gallico l’ho preparato dalla soluzione madre ieri. E’ invecchiata la soluzione madre?
Mi conviene fare così: questa sera preparo una nuova soluzione di acido gallico ripartendo da quello in polvere e ripreparo una nuova soluzione di collodio. Domani riprovo.
La prima prova al collodio andò bene, tranne che per la stesa risultata irregolare.
Occorre aver fede…

Ho preparato una nuova soluzione madre di acido gallico (soluzione satura da diluire al bisogno). Per ora continuo ad usare l’acido gallico come rivelatore. Presa pratica col collodio, farò delle prove con il solfato ferroso che è, per il collodio, il rivelatore di elezione (almeno cos’ è scritto nei testi dell’epoca).
Intanto ho preparato una nuova soluzione di collodio. La vecchia ha un colore bruno che ne rivela l’età…
40 ml di collodio al 5%, 40 ml di acido acetico, 20 ml di alcool etilico. Parecchio tempo se ne è andato per ripulire il cilindro graduato e l’imbuto di vetro.
Ho versato nella bottiglietta un grammo di ioduro di potassio e 0,1 grammi di bromuro di potassio.
Di tanto in tanto l’agito un po’. Lo ioduro di potassio, solubile in acqua, lo è poco nell’alcool e nell’etere. Sarebbe preferibile lo ioduro di cadmio, ma è troppo costoso.
Ho sentito dalle previsioni del tempo che domattina è sereno. Ripeterò la prova.
 

6 settembre 2007

Stamattina ho sistemato la camera obscura in giardino, regolandone il fuoco su di una poltroncina per un nuovo autoritratto, questa volta al collodio, ricalcando le orme di Nadar.
Ho steso il collodio, preparato di fresco, in abbondanza sulla lastra a cominciare dall’angolo sinistro e l’ho mossa per stenderlo su tutta la superficie. Manovra perfetta: uno strato uniforme e trasparente. Sensibilizzazione in camera oscura col nitrato d’argento per due minuti, risciacquo rapido in acqua e caricamento dello chassis. Quindi esposizione di un minuto e mezzo. Di corsa in camera oscura ad immergere la lastra nell’acido gallico. Dopo soli dieci secondi si è delineata l’immagine, nitida, perfetta. Di nuovo ho provato quella intensa emozione che nessuna digitale riesce più a darmi. Guardavo quei neri profondi ed i bianchi trasparenti del negativo che riproducevano, a toni invertiti, me, la sedia e l’edera sullo sfondo. Immersione nel fissaggio ed un breve sguardo alla vaschetta del risciacquo posta sotto il lavandino. Torno alla lastra e la vedo notevolmente sbiadita. La estraggo, la sciacquo. Non è la prima volta che mi succede e non capisco ancora perché. Rimetto la lastra nello sviluppo, ma resta così com’è.
Torno allora a sensibilizzare una nuova lastra e la riespongo. Questa volta la stesa non è perfetta come la prima, ma l’immagine compare di nuovo. L’annerimento non è però uniforme. Non la fisso e mi limito a sciacquarla. Sensibilizzo una terza lastra, senza risciacquarla dopo il bagno di nitrato, considerato che dopo il bagno in acqua notavo delle striature sulle precedenti. Torno a posare per due minuti e 30 secondi. Questa volta il risultato è di nuovo perfetto. La soluzione di sviluppo si annerisce e riesco a vedere l’immagine solo muovendo la vaschetta. Capisco subito il perché di quel deposito granuloso nero: è la soluzione di nitrato d’argento che non ho asportato col lavaggio. Non la fisso, la sciacquo soltanto e la metto ad asciugare con le altre due nell’essiccatoio al buio. Userò la seconda prova per testare il tempo di resistenza alla luce. Senza sviluppo, l’annerimento diretto dovrebbe impiegare parecchio tempo a distruggere l’immagine.
Questo del fissaggio è un problema che devo risolvere. Quello con l’acido gallico è uno sviluppo con una forte componente fisica (infatti la soluzione è a pH acido e non basico come per gli sviluppi attuali). Dipende forse da questo? Nei vecchi libri che ho letto, non si fa cenno a questo problema.
Ecco l’ultimo dei negativi di oggi, il migliore. Sono soddisfatto. Ricordo i primi autoritratti calotipici, nei quali era visibile la grana della carta.
Uno dei miei obiettivi è sempre stato quello di “forare la barriera del tempo” riuscendo a rendere sempre più definito il mio volto. E’ come guardarsi in uno specchio appannato che mano a mano diventa limpido. La definizione di questa immagine è buona, soprattutto tenendo conto che sono rimasto immobile (tranne qualche rapida occhiata all’orologio) per ben due minuti e trenta secondi, e senza poggiatesta o altri marchingegni.
Occorre essere rapidi nella stesa, altrimenti il collodio inizia a rapprendersi. Ma comincio a prenderci la mano.

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2_collodio%205%20positivo

Non avete idea di quanto sia lungo un minuto e mezzo. Osservate il positivo. Ho in mano l’orologio che sbircio di tanto in tanto cercando di non muovere la testa. Che succede? Il tempo si è fermato? Mi ricordo di una frase letta su di un orologio solare sulla facciata di un palazzo: “Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae”. Lo scorrere del tempo è relativo. Il piede destro è mosso: sono le pulsazioni dell’arteria femorale che causano una ritmica e regolare oscillazione dell’arto. Con tempi così lunghi non c’è bisogno di autoscatto. È sufficiente togliere il tappo dall’obiettivo e correre a sedersi restando immobili. Alla fine della posa, di corsa a rimettere il tappo all’obiettivo.

8 settembre 2008

Questa mattina mi sono di nuovo messo all’opera. La prima lastra si è annerita appena. Ho allora preparato dello sviluppo fresco e ne ho esposto una seconda. Contrariamente alla stesa praticamente perfetta nell’autoritratto di ieri l’altro, questa volta ho avuto qualche difficoltà e si notano diverse striature. La cosa credo dipenda dal fatto che l’etere è estremamente volatile ed ogni volta che apro la bottiglietta con la soluzione di collodio, ne evapora una discreta quantità, rendendo più densa la soluzione. In ogni caso, la definizione è ottima. Mai così chiari i dettagli. Ho esposto per un minuto e trenta secondi. Troppo? Non mi sembra dal tempo che ha impiegato ad apparire l’immagine (rispetto a due giorni fa). Eppure si notano, nelle parti più chiare, come per il lenzuolo e per i riquadri bianchi sotto le finestre al sole (quelle sulla destra), delle solarizzazioni.

3_collodio%207%20pos

E’ straordinaria la latitudine di posa che ha reso leggibili le parti in ombra ed in luce del palazzo, colpito da un sole obliquo.
Ho aggiunto intanto dell’etere per la prossima prova, finendo la mia scorta. Dovrò tornare in farmacia a procurarmene dell’altro.”

E qui si è interrotta, preso da altri affanni, la mia sperimentazione. L’idea era quella di continuare con la gelatina e con la sensibilizzazione cromatica per ottenere lastre ortocromatiche e pancromatiche. Ma non è detto che non riprenda questo viaggio nel tempo.

Dati i lunghi tempi di posa, gli otturatori non erano ancora stati inventati. Lo furono con le lastre alla gelatina che divennero talmente sensibili da richiedere tempi dell’ordine di frazioni di secondo.

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Uno dei primi otturatori: otturatore a battente, con comando pneumatico.

Prima di allora, come ho fatto anch’io con la mia camera obscura, era sufficiente togliere il tappo, far passare i secondi necessari all’esposizione e rimetterlo sull’obiettivo. Su di un antico testo di fotografia leggo questa curiosa ed interessante procedura nel capitolo sugli otturatori:

“Il più elementare è sempre l’otturatore a coperchio. Si toglie e si rimette con la mano. Convien non far muovere la macchina facendo tale manovra. Per poco che si esamini il movimento che si fa, si osserva che scoprendo l’obbiettivo abbassando il coperchio e rimettendolo nello stesso senso, viene a darsi alla parte inferiore della lastra una durata maggiore di posa, poiché la prima a scoprirsi e l’ultima a ricoprirsi è la parte superiore della lente. Nel paesaggio invece conviene dare una posa maggiore al terreno che al cielo, così converrà alzare il coperchio dal basso in alto.” In pratica, quello che si fa oggi con i filtri digradanti.

Quando si è cominciato a diffondere il digitale, molti lo snobbavano declamando la superiorità della pellicola. Alcuni lo fanno ancora oggi. Leggendo un vecchio libro di mio padre, mi rendo conto che: “Niente di nuovo sotto il sole”. È stato così anche quando la gelatina ha sostituito il collodio:

Da: Giovanni Muffone – “Come il sole dipinge” – Fotografia per i dilettanti – Hoepli Editore, nona ed. 1925:

“Voi o lettori, non vi farete mai l’idea d’un dilettante al collodio perché potreste pensare molti eroismi e molte fissazioni di mente che il volgo prenderebbe per ostinate cocciutaggini, ma i sacrifizi, i lavori, le privazioni, le grandi virtù di soma, di cammello che si raccolsero in cotesto essere, che ormai è sparito dal martirologio umano, sono appena concepibili e appena narrabili. Noi lo nominiamo solo perché non sfuggano alla storia le benemerenze di questa classe di persone, che volle e fortissimamente volle e dimostrò a qual punto possa giungere il dilettantismo. Trasporto di bauli, di valigie, di tende d’accampamento, recipienti per l’acqua, un’infinità di boccette, veleni, treppiedi, scatole. Sembrava una spedizione per paesi inesplorati e con ciò un coraggio a tutta prova di sfidare la curiosa pubblicità dei monelli, dei villici, dei tranquilli quadrupedi delle vie di campagna che s’impaurivano al terribile apparato. E la vittima usciva dalla lotta con le mani macchiate dal nitrato d’argento, dall’acido pirogallico, con gli occhi rossi e stanchi per il lavoro nelle tende a laboratorio e per risultato aveva spesso una negativa… ironicamente negativa perché il fiasco era completo! Quanta abnegazione sconosciuta, quanto coraggio sventurato!

Eppure questa vecchia guardia è degna di ogni reverenza e pure a noi, giovani bersaglieri dell’oggi, fa impressione l’eroismo suo, e ci rendiamo conto del perché questi lodatori del tempo passato non si siano piegati ai nuovi processi… poiché è singolare, ma è umano, che la evoluzione urti nell’orgoglio di chi ha già fatto, e sembri a ciascuno men degno fare il più facile dopo aver superato il difficile. E così, nella turba dei nuovi fotografi troverete sempre un po’ a parte, con cipiglio dantesco o con bonomia manzoniana, colui che fu sacerdote del collodio e scosta e si tiene su dai novellini facilini e rimpiange i vecchi sistemi che provavano almeno l’ingegno, mentre oggi divengono marcelli nelle campagne e nelle città, tutti gli studenti che van fotografando”.

 

Ora viviamo un’altra rivoluzione della Fotografia, quella del digitale. La diffusione delle immagini su internet, l’economicità, la praticità stanno relegando la pellicola ad un fenomeno di nicchia, di appassionati.

Ciò che una volta era una ipotesi fantascientifica è ora realtà.

Nel volume”Le nuove frontiere” di una serie di monografie sulla Fotografia edite da Arnoldo Mondatori nel 1980, leggo a pagina 17:

“… lo sviluppo di queste tecniche fa pensare che la supermacchina del futuro potrebbe funzionare addirittura senza pellicola, così come noi la conosciamo. L’apparecchio potrebbe contenere una lastra sensibile permanente, capace di registrare immagini e poi cancellarle nello stesso modo in cui si registra e si cancella l’incisione sui nastri dei registratori.”

Una vera e propria profezia.

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