L'equipe di Silvia – di Gaetano Ariti
“L’equipe di Silvia”
di Gaetano Ariti – opera presentata all’attività “Insieme per la fotografia” 2012 dei Circoli Fotografici di Pisa.
In questo portfolio ho cercato di “sfruttare” la disponibilità data dalla amica e collega Silvia e dalla sua equipe composta prevalentemente da solo donne. Questa peculiarità ha stimolato in me la curiosità di assistere ad un intervento chirurgico gestito da solo donne. Quello che ho dovuto fare non è stato altro che aspettare. Aspettare che nessuno notasse più la mia presenza e che ognuno fosse impegnato nel proprio ruolo. Così ho iniziato a fotografare. Gli unici rumori udibili in sala erano quelli dello scatto della mia macchina fotografica e i “bip” provenienti dal monitor multiparametrico per il monitoraggio anestesiologico del paziente. Questo mi ha permesso di estraniarmi completamente, di concentrarmi sugli sguardi sui movimenti di chi operava, tralasciando così l’intervento in sé.
L’opera, “L’equipe di Silvia” di Gaetano Ariti, è animata da un’idea narrativa tematica, ovvero la narrazione soggettiva del tema. E’ un racconto che ha una protagonista, Silvia, una donna chirurgo che lavora con altre donne. La sequenza ci immette in un racconto temporale che attraversa le fasi dell’intervento: dallo studio del problema allo spogliarsi del camice. Non è una narrazione didascalica ma, attraverso i segni della gestualità e degli sguardi, l’autore ci parla del lavoro di Silvia comunicandoci la sua tensione psicologica con i primi piani e probabilmente anche il suo stile professionale (per chi lo sa vedere) quando allarga la visione dello scenario della camera operatoria.
“Sostanzialmente di sole donne” e si sa della sensibilità al taglio e cucito, ma pure ricamo rammendo e rattoppo della specie, che è pur sempre immagine. L’uso, inteso come sinonimo, donna femmina è un’illusione della mente. Mi fermo qua.
In una stanza illuminata da luce scialitica c’è poca trippa per gatti, infatti, l’immagine tutta ne risente drammaticamente. Se fossero immagini fotografiche a ricordino, niente da eccepire. Fatto personale che però non vanno mostrate in pubblico.
Viceversa s’è un tentativo di reportage, esso è abortito, e nella sala chirurgica s’immagina le donne prese alla bisogna emorragica.
Mi spiego: nell’immagine la “Levatrice” di Eugene Smith c’è un’atmosfera che pure in presenza di un fatto “chirurgico” mostra splendidamente pathos e narrazione. Non sono assimilabili, e vabbene d’accordo. Ma c’è un evento, narrato che è assente del tutto (fatto salvo la foto ricordo) nella sala “sostanzialmente di sole donne” . Resta, la cifra, immaginare senso e costrutto. Forse è mancato un senso chiarificatore dell’autore con se stesso: cosa fotografare e soprattutto perché?
Una donna fotografata da un collega che sa cogliere attimi salienti di una operazione, con delicatezza, appena un sussurro. Coglie una donna forte che non cela la sua espressività dietro la mascherina, anzi è acuita nel suo sguardo e nelle movenze delle mani, tese ad eseguire il loro mestiere. Non occorrono visceri e sangue per esprimere una passione!