Robert Capa in Italia 1943-1944 – a cura di Massimo Agus
Robert Capa in Italia 1943-1944 – a cura di Massimo Agus
Il Museo Nazionale della Fotografia Alinari di Firenze ospitata fino al 23 febbraio la mostra “Robert Capa in Italia 1943-1944”. Quest’anno ci sono state, e ci saranno ancora nel 2014, molte mostre dedicate al fotografo ungherese, perché nel 2013 si è celebrato il centenario della nascita, e nel 2014 cade il sessantesimo anniversario della sua tragica morte in Indocina.
La mostra di Firenze è molto particolare, perché ci fa conoscere una specifica parte del lavoro di Capa, cioè gli scatti fatti durante la campagna d’Italia al seguito dell’esercito alleato dal 1943 al 1944. Le 80 foto esposte coprono lo sbarco in Sicilia e l’avanzata verso Roma dopo lo sbarco ad Anzio. Sono assenti perciò gli scatti più noti, ma le fotografie scelte ci danno la possibilità di conoscere meglio il lavoro quotidiano del fotogiornalista Capa, mentre va alla ricerca delle sue storie e fotografa la vita di ogni giorno dei soldati anche nei momenti di pausa dell’avanzata.
La cronaca della sua partecipazione alla seconda guerra mondiale e alla campagna d’Italia la possiamo leggere in “Leggermente fuori fuoco” il suo diario-romanzo, in cui Capa, con uno stile accattivante e ironico, ci racconta le sue peripezie di viaggio, gli incontri fatti, l’atmosfera di quel periodo cruciale.
“Ero stato all’unanimità riconosciuto come siciliano dalla folla in festa” scrive Capa sul suo arrivo in Sicilia, e ciò è anche testimoniato dal racconto che Andrea Camilleri ha fatto del suo incontro fortuito con Capa nel 1943 ad Agrigento:
”Nella luce abbagliante di quella mattina di luglio, il tempio m’apparve intatto. Nello spiazzo antistante c’era un soldato americano che stava fotografando il tempio. O almeno tentava. Perché inquadrava, scuoteva la testa, si spostava di qualche passo a sinistra, scuoteva nuovamente la testa, si spostava a destra. A un tratto si mise a correre, si fermò, cercò un’altra angolazione. Neppure questa volta si mostrò contento. Io lo guardavo meravigliato. Il tempio quello era, bastava fotografarlo e via. Che cercava? Doveva essere un siciliano, lo si capiva dai tratti, forse voleva portare un ricordo ai suoi familiari in America. In quel momento, fummo assordati da un rumore di aerei e di spari. In cielo, ma a bassissima quota, si stava svolgendo un duello tra un aereo tedesco e uno americano. Mi gettai a terra. Anche il soldato si gettò a terra, ma, al contrario di me, a pancia all’aria. Scattava fotografie una appresso all’altra senza la minima indecisione, la macchina tra le sue mani era un’arma, una mitragliatrice. Poi i due aerei scomparvero. Ci rialzammo, gli dissi qualcosa in dialetto. Non capì. Io non parlo inglese, ma qualche parola la capisco. Mi spiegò che era un fotografo di guerra. Mi scrisse su un pezzetto di carta il suo nome: Robert Capa. Per me, allora, un perfetto sconosciuto. Ci salutammo. Ripresi la bicicletta, tanto la strada ora era tutta in discesa”. (Andrea Camilleri, Una corsa verso la libertà, 2008)
Nelle fotografie fatte in Italia Capa non riprende solo i combattimenti, grande attenzione la dedica ai civili, alle sofferenze provocate dalla guerra e a come le persone riescano ad andare avanti nonostante le perdite subite e la distruzione che li circonda. Si riconosce già nelle foto di Capa quell’Italia che sarà rappresentata nelle immagini dei fotografi italiani neorealisti del dopoguerra.
Nelle fotografie scattate ai civili e ai semplici soldati traspare una forte partecipazione personale, cerca di restituirne il dramma individuale, consapevole del fatto che chi soffre maggiormente della guerra sono i singoli individui. Questa sua “umanità” la possiamo anche trovare in alcuni ritratti di soldati tedeschi catturati dagli alleati: anche il “nemico” è un essere umano vittima dei meccanismi della guerra.
Lo scrittore americano John Steinbeck, scrisse di lui “Capa sapeva cercare, e poi sapeva usare ciò che trovava. Sapeva, ad esempio, che la guerra, fatta in così larga misura di emozione, non si può fotografare; ma egli spostò l’angolo, e la fotografò. Su un volto di bambino sapeva rivelare l’orrore di tutto un popolo. Il suo apparecchio coglieva le emozioni, e le conservava. L’opera di Capa è da sola, tutta insieme, l’immagine di un grande cuore e di una irresistibile pietà. …. Capa era in grado di fotografare il moto, la gaiezza, la desolazione, Era in grado di fotografare i pensieri. Ha creato un mondo, che è il mondo di Capa”.
Questa mostra ci permette di apprezzare il lavoro di Capa narratore, la sua capacità di raccontare la guerra nelle sue situazioni semplici e quotidiane, con grande perizia fotografica e visiva. Ogni immagini è una piccola storia, in cui ogni elemento è gestito perfettamente per riuscire a raccontare quel momento: le persone, le loro espressioni, il rapporto con l’ambiente, l’azione fermata dallo scatto, la luce. La grande capacità narrativa del fotogiornalista Capa si rivela al massimo proprio in queste immagini della tragica quotidianità della guerra.
Le fotografie provengono dalla serie Robert Capa Master Selection III conservata dal Museo Nazionale Ungherese di Budapest. La serie, composta da 937 fotografie scattate da Capa in 23 paesi di 4 continenti, è una delle tre Master Selection realizzate da Cornell Capa, fratello di Robert, e da Richard Whelan all’inizio degli anni Novanta e conservate a New York, Tokyo e Budapest. Le tre serie, identiche tra loro, Master Selection I, II e III, contengono stampe provenienti dai negativi della collezione dell’International Center of Photography di New York, dove è conservata l’eredità di Capa.
La mostra “Robert Capa in Italia 1943 – 1944” è accompagnata da un catalogo con testi di Beatrix Lengyel, Ilona Stemlerné Balog, Éva Fisli e Luigi Tomassini.
Massimo Agus è docente di fotografia, critico fotografico e appassionato studioso del linguaggio e della storia della fotografia.Egli è una figura che si è distinta nel nostro ambiente per la sua bella apertura mentale, la disponibilità all’incontro e la sensibile competenza nell’ambito delle manifestazioni di lettura di portfolio del circuito FIAF “Portfolio Italia” curato dal Presidente d’Onore FIAF Fulvio Merlak. Ancor prima della pubblicazione del primo post dedicato a Robert Capa di Gianpiero Scafuri mi aveva inviato questo post monografico sulla mostra attualmente aperta al Museo Nazionale della Fotografia Alinari di Firenze. Il suo intervento è quindi un approfondimento su questo preciso tratto tematico dell’opera di Robert Capa. Nei miei incontri con gli autori importanti dell’ambiente FIAF solo Ernesto Fantozzi mi ha parlato con tono reverenziale del linguaggio fotografico di Robert Capa. Ho pertanto l’impressione che Capa deve essere ancora compreso dalla gran parte degli appassionati fotografi. E’ bene quindi parlarne ancora e non perdere l’occasione di vedere la sua opera non antologica ma di un periodo circoscritto a un anno del suo lavoro in Italia. Grazie a Massimo Agus per suo spontaneo contributo ad Agorà Di Cult!
“Ammiro Cartier Bresson, ma amo Capa”. E’ un ‘espressione che non perdo occasione di ripetere quando mi capita di essere intervistato.
Nella seconda metà degli anni 50,poco dopo aver visto una mostra di Bresson, cui fece seguito l’immediato acquisto del mio primo volume di fotografia, “Les Europeens”, avvenne la mia conoscenza delle fotografie di Robert Capa in mostra al PAC di Milano.
Fu per me un’esperienza determinante che avrebbe per sempre orientato il mio modo di scattare fotografie.
Ossia, fotografare al servizio della realtà che vale più della mia opinione, non mettere mai la realtà al servizio del fotografo. Il mio secondo libro fotografico non poteva perciò essere altro che “Images of War” nel quale Capa, a proposito di una fotografia scattata a Troina (Sicilia)si esprime così: …ma il soldato che guarderà questo scatto di Troina, a dieci anni da oggi nella sua casa in Ohio, potrà die :”Ecco, era così!”.
Già che ci sono, il Direttore che ringrazio di avermi in questa occasione ricordato, mi concederà anche di trascrivere un paio di commenti significativi sul personaggio e sull’opera di Robert Capa.
Cartier Bresson: Un avventuriero con dell’etica ( e di se stesso: un avventuriero con dell’estetica).
Mark Riboud: Un giocatore incallito sempre pronto a rischiare tutto? Può darsi, ma non un imbroglione.
Piero Racanicchi: La retorica era fuori registro per l’obiettivo di Capa.
Jon Steinbeck: L’opera di Capa è lo specchio di un’anima nobile e profondamente pietosa.
> Ernesto Fantozzi
Ossia, fotografare al servizio della realtà che vale più della mia opinione, non mettere mai la realtà al servizio del fotografo.
Bob Capa è un fotogiornalista. Ovvio che cerchi di raccontare quello che vede.
Ma la sua peculiarità è nel coraggio, nel bisogno di avventura. Egli è come l’eroe che attraversa la Manica col primo aereo in tela, come l’astronauta che per primo atterra sulla luna.
Ma parlare di “realtà” mi sembra eccessivo. Non a caso la sua foto de “il miliziano” è stata a lungo considerata un falso storico. E la famosa foto del bacio di Doisneau, a Parigi, è un altro “falso storico”.
Il genio di Bob Capa è saper essere nel punto giusto nel momento giusto, anche a rischio della pelle, e saper cogliere e sintetizzare in una foto significati che altri non avrebbero visto.
Ma la realtà è altra cosa.
Infatti due fotografi: uno tedesco e l’altro americano, racconterebbero due realtà diverse della stessa guerra. Due fotografi russi degli anni ’70-’80, uno pro regime l’altro no, racconterebbero (entrambi in buonafede) due realtà divergenti della loro nazione.
Fidatevi, era così ! E si vede, ci sono sostanzialmente due modi di intendere la fotografia, interpretare la realtà e farla vedere per come era esattamente, ( e non “o-farla-vedere-per-come-era-esattamente” ). Perchè il rapporto del fotografo con la realtà ha sempre una struttura duale, come per la luce che è sia onda sia particella. Le due cose esistono entrambe, a volte prevale una a volte l’altra ma mai ci sono fotografi che interpretano creando cose solo finte ed altri che fanno solo cartoline. Capa, come Scianna o Bresson, Doisneau, ed anche Giacomelli lo sapevano bene 🙂
Che cosa “vediamo” quando osserviamo la realtà?
Ciascuno vede quello che si aspetta di vedere. In sostanza, quello che più corrisponde alle nostre conoscenze consolidate, alle nostre attese, alle nostre abitudini.
Un fotografo onesto, veramente capace di usare il linguaggio fotografico, riesce almeno a raccontare la sua realtà.
Messo davanti alla stessa scena, un gruppo di 20 fotografi racconta di essa 20 realtà diverse. Ma solo uno ha, magari, l’idea, l’intuizione, il genio di attribuire un significato soggettivo ma intelligente e comprensibile agli altri, e la capacità, poi, di renderlo comprensibile al prossimo.
Gli altri colgono solo l’aspetto superficiale, epidermico.
Il grande fotografo, o artista, riesce a glorificare una pietra, un pezzo di tela, una persona; trasformando una ragazza in “Mona Lisa”, un pezzo di marmo nella pietà di Michelangelo.
Tanti vanno in India, in Mozambico a riprendere le capanne di fango, i lavoratori dei campi. Solo un MacCurry riesce a trasformare una comune ragazza afghana in un mito internazionale, con una sola foto.
Eppure “quella” minuscola ragazzina l’hanno vista in tanti!
Solo un Cartier Bresson, un Doisneau riescono a cogliere l’ironia di un gesto, di una situazione. Perché l’ironia, la poesia è dentro di loro.
Solo un Salgado riesce a vivere insieme a tristi e sfortunati figuri per anni, per comprendere e poi raccontare il dolore, la fatica, la guerra, la gioia, la forza. Perché egli ha la sensibilità e la nobiltà d’animo di sostenere il peso di quelle scene con l’amore, con la pietas, col rispetto che ogni essere umano merita.
Questo è il motivo per cui solo uno su 7 miliardi è Salgado, Capa, Cartier Bresson. Gli “altri” siamo tutti, anche se più o meno tecnicamente bravi, collezionisti di presunte e superficiali realtà.
Se quella che hanno raccontato Salgado, Capa, Bresson ecc., fosse solo la semplice ed epidermica “realtà”, essa sarebbe alla portata di tutti.
Ma il problema vero è che quello che racconta la fotografia non è la realtà, ma i concetti, le idee del fotografo.
E chi non ha interesse, chi non ha la necessaria preparazione mentale e culturale, coglie solo la superficialità della materia.
Al punto che, invece di piangere davanti a certe scene (e farsi in quattro per salvare un bambino, lasciando per terra l’apparecchio fotografico, come Salgado), riesce tranquillamente a cenare mentre esse passano quotidianamente in televisione.
Comunque è sulla percezione della realtà che i prestidigitatori fondano la loro fortuna.
Antonino Tutolo