L’albumina – di Enrico Maddalena
L’albumina – di Enrico Maddalena
Quali gli inconvenienti del processo dagherrotipico e di quello calotipico?
Il dagherrotipo produceva un esemplare unico, anche se ricco di dettagli. Il calotipo permetteva di ricavare da un negativo numerose stampe, ma la granulosità della carta produceva immagini ben lontane dalla nitidezza del dagherrotipo. Constatata quindi la superiorità del processo negativo-positivo, si cercarono altre strade nel tentativo di utilizzare lastre di vetro come supporto dei sali d’argento.
Furono fatti molti tentativi per trovare una emulsione che aderisse al vetro.
Le lastre all’albumina sono state inventate da Abel Niepce de Saint-Victor, nipote di quel Joseph Nicéphore che già conosciamo. E’ il primo procedimento fotografico su vetro, reso pubblico nel 1848:
1 – Una lastra di vetro pulita, veniva spalmata con bianco d’uovo contenente ioduro di potassio e la si faceva asciugare. 2 – Veniva sensibilizzata con una soluzione acida di nitrato d’argento. 3 – Veniva quindi esposta e sviluppata in acido gallico.
Le lastre potevano essere preparate anche alcuni mesi prima dell’uso. Si ottenevano dettagli finissimi ed erano eccellenti per le riproduzioni di architetture. Richiedevano però esposizioni di 5 – 10 minuti e non erano perciò adatte ai ritratti. Vennero presto sostituite dalle più pratiche lastre al collodio. Le diapositive all’albumina sono state usate fino al 1857 per proiezioni con lanterne magiche e per immagini stereoscopiche.
La carta albuminata, inventata da L. D. Blanquart Evrard nel 1850, divenne il materiale più usato per la stampa fino a circa il 1900. Rispetto alla carta salata, la tecnica di stampa usata fino ad allora, si ottenevano immagini più contrastate, brillanti e definite. L’immagine non si produceva più tra le fibre della carta, ma nello strato omogeneo di albumina di cui la carta costituiva solo il supporto.
1 – Si ricopriva la carta con bianco d’uovo contenente bromuro di potassio ed acido acetico, quindi la si faceva asciugare. 2 – La si sensibilizzava immergendola in una soluzione di nitrato d’argento. 3 – Dopo l’esposizione al sole sotto il negativo, con apparizione dell’immagine (annerimento diretto), la si virava in una soluzione di cloruro d’oro. 4 – La si fissava quindi con l’iposolfito, la si lavava ed asciugava.
Emil Lotze: “L’Ortler dal passo dello Stelvio”. 1876, albumina da negativo al collodio.
In quel periodo, si cercarono anche dei procedimenti non argentici, che assicurassero una maggiore durevolezza alle stampe. I più importanti, ed usati ancor oggi da appassionati, come dagli iscritti al Gruppo Namias di cui faccio parte, sono:
La stampa alla gomma bicromatata. Lo scozzese Mungo Ponton nel 1839 scoprì che il bicromato di potassio, mescolato ad una sostanza organica, ne modifica la solubilità in acqua a seconda della sua esposizione alla luce. La tecnica al bicromato venne usata specie dai pittorialisti.
La stampa al carbone, inventata da Alphonse Louis Poitevin: si ricopriva la carta con un’emulsione formata da polvere di carbone, gelatina e bicromato di potassio. Una volta asciutta la si esponeva alla luce sotto un negativo. Si sviluppava in acqua calda.
Ditta Giacomo Brogi, Giardino per le alunne infermiere, 1900 circa, stampa al carbone.
Firenze, Archivio Istituto degli Innocenti
Quando un saggio, così sintetico e completo, interrompe la nostra normale pubblicazione di opere fotografiche, si genera una pausa riflessiva dove la mente del lettore trova un angolo di riposo nel quale non è chiamata a interagire ma a piacevolmente comprendere e imparare. Bisogna dire che l’albumina, con la sua nitidezza e perfezione plastica, è stato un altro bel passo avanti verso la fotografia come noi la conosciamo. Il reale fotografico ha iniziato il suo percorso magico affiancandosi ai mezzi di documentazione con la sua novità linguistica ed estetica. A proposito della documentazione, la foto del passo del Passo dello Stelvio mi ha consolato perché nel 1876 si presentava con la stessa neve che io ho visto quest’anno ad agosto. Questa osservazione sembra una sciocchezza ma se penso che ho fatto un paragone tra due condizioni ambientali distanti 138 anni non mi pare cosa da poco. Rinnovo i complimenti a Enrico Maddalena, componente del sempre più importante Gruppo Namias, per la sua preziosa presenza tra noi. Lo seguiremo, come al solito, anche nella sua personale sperimentazione dell’antica tecnica fotografica all’albumina.
Buongiorno,
Per me che ho scoperto la fotografia al tempo del digitale, queste ricerche chimiche mi sembrano proprio magiche e sono ammirata della pazienza di questi uomini per trovare un modo di migliorare la fotografia.
Di un’altro lato, mi fa sorridere se immagino gli stessi a scoprire come oggi si è trasformata la tecnica del mezzo, e forse, per loro, sarei una magia 😉
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Pour moi qui ai découvert la photographie à l’ère du numérique, ces recherches sur les développements chimiques me semblent relever de la magie. Je suis sincèrement admirative de la patience qu’on éprouvée ces hommes pour trouver les moyens d’améliorer la photographie, de la développer, de la rendre accessible.
D’un autre côté, je souris à l’idée de voir ces mêmes personnes découvrir à quel point la technique s’est transformée, et, qui sait, je pourrais paraître une magicienne à leurs yeux 😉
Laurence
Forse mi sbaglierò 🙂 ma le immagini derivanti dagli odierni supporti numerici non avranno MAI E POI MAI il fascino, la forma e le luci di quelli delle lastre e pellicole d’autre-fois ormai abbandonati ( ma non da tutti però, Gardin docet ).
Complimenti per l’articolo 🙂
Grazie a Enrico Maddalena e alle sue “lezioni” ci stiamo appassionando nella conoscenza dei procedimenti iniziali della “meravigliosa” scoperta della fotografia. Con le sue spiegazioni esaurienti, profonde e chiare fa nascere il desiderio di provare a cimentarci con chimici e pennelli.
Proprio perché lo stesso Maddalena ha accennato al Gruppo Namias mi piace segnalare che in questi giorni a Genova presso il Museo di Palazzo Rosso, in Via Garibaldi, è aperta una prestigiosa Mostra del Gruppo Namias, quello di cui Enrico fa parte ( inaugurata venerdì 11 aprile 2014, resterà fino all’11 maggio 2014) nella quale si possono ammirare immagini di rara e raffinata bellezza realizzate dai soci del gruppo.
Si legge, tra l’altro, nella locandina a corredo della mostra: “La mostra propone un viaggio nella storia della fotografia attraverso le sue tecniche, dalle prime esperienze di stampa ai sali d’argento e ai sali ferrici, fino ai procedimenti ai bicromati alcalini, utilizzati soprattutto nel periodo pittorialista, tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento.
L’importanza di quest’ultime realizzazioni non è solo di carattere espressivo: esse sono alla base della diffusione dell’immagine fotografica su carta stampata”.
Complimenti!
Orietta Bay
Buonasera, sono interessata a questa tecnica per motivi di studio.
Desidero conoscere ulteriori fonti, se possibile, soprattutto per quanto concerne la fotoriproduzione e le cautele da adottare. Grazie