160, 220, 380……Il lungo viaggio – di Ida Oppici
160, 220, 380……Il lungo viaggio – di Ida Oppici
Opera presentata ai tavoli di lettura di “Portfolio al Mare” 2013 di Sestri Levante.
Come Delegata FAI della provincia di Sondrio ho avuto l’opportunità di fare un viaggio “sui generis” nel cuore delle Centrali Idroelettriche della Valtellina. Similmente ad Alice nel paese delle meraviglie, lo spettacolo che si presentava davanti ai miei occhi era veramente sorprendente.
Il percorso che dalla bassa valle conduce alla cima della montagna, dove si trovano i bacini di raccolta delle acque dei ghiacciai, è quanto di più fantascientifico si possa immaginare ed è effettuato con un trenino che attraversa la montagna entrando nelle sue viscere e percorrendo lunghissime gallerie.
Giunti sulla sommità l’occhio umano può spaziare all’infinito su una natura incontaminata: l’aria è tersa e frizzante anche nel mese di luglio e nel lago alpino galleggiano gli ultimi blocchi di ghiaccio come piccoli iceberg. Poi, all’improvviso, uno strapiombo che mozza il fiato. Lo sguardo impatta in milioni di metri cubi di cemento che svettano verso il cielo a formare una muraglia dalle dimensioni faraoniche.
E’ la diga: un gigante costruito dall’uomo per creare un invaso nel cuore delle Alpi. Un Gargantua che se scricchiolasse spazzerebbe via in un istante un’intera vallata.
In questo mondo, ai più sconosciuto, tutto è sovradimensionato. Da un’altezza di duemila metri l’acqua è riportata a valle attraverso un reticolo di condotte forzate che in un gioco di entrate e di uscite compaiono e spariscono nei fianchi delle montagne, abbracciandoli sino a diventare parte integrante dell’ambiente naturale; i bulloni possono raggiungere la grandezza di un pugno; le turbine Pelton, con i loro denti in acciaio a forma di cucchiaio, fanno sfoggio di tutta la loro forza e potenza e muovono una quantità inverosimile di metri cubi d’acqua ad una velocità impressionante.
Nelle Centrali vere e proprie manometri,saracinesche, valvole collegati con gli impianti, controllano e regolano 24 ore su 24 la pressione dell’acqua e si stenta a credere che l’artefice di questo ciclopico apparato possa essere l’uomo il quale, nell’ambiente da lui stesso costruito, appare con le stesse proporzioni di Gulliver in mezzo ai lillipuziani.
Con questo portfolio ho voluto raccontare il lungo viaggio dell’acqua che trasformata in energia elettrica consente ad ognuno di noi di fruire di un bene così prezioso come la luce.
Basta un semplice”clic”. Ma è un “clic” che ha origini molto lontane.
“160, 220, 380… il lungo viaggio” di Ida Oppici è un’opera narrativa tematica per la interpretazione che l’autrice ha dato del tema energetico. Quella che la Oppici ci mostra prodotta in Valtellina è un’energia pulita prodotta da una tecnologia meccanico-idraulica ideata alla fine dell’ottocento. Bello il messaggio morale che quest’opera, comprensibile e istruttiva, riesce a comunicare a tutti: “con l’acqua del lago alpino si accendono le luci nella città senza bruciare un grammo di combustibile”. E’ raro poter accedere a questi siti e nelle immagini, votate al massimo realismo, si sente l’aura del miracolo tecnico che la Oppici ha percepito nel visitare gli impianti. L’idea centrale che il portfolio compone è che le macchine sono una parte essenziale del nostro spazio artificiale e sono espressione di un sapere ammirevole che in questo contesto si abbraccia con le potenzialità fisiche della natura. Complimenti all’autrice!
Giusto un appunto pignolo da tecnico (… studi giovanili di elettrotecnica): avrei tolto un paio di scatti della parte idrica e inserito un paio di scatti della parte elettrica (trasformatori, elettrodotti, contatori, interruttori,…).
Confermo le sensazioni di energia e ingegnosità che si provano visitando queste centrali.
Le centrali idroelettriche furono le opere moderne, nel primo 900, create dall’uomo e dal suo ingegno.
Un progresso tecnico di enormi proporzioni raggiunto con la Rivoluzione Industriale avvenuta in tutta Europa.
L’autrice rimasta affascinata dalla enormità dell’opera e dell’impiantistica tecnologica ,descrive i bulloni grossi come un pugno , enormi.
Apprezzo l’idea di Ida nella immagine finale che ci fa capire il percorso dell’energia trasformata in luce alle abitazioni .
Le immagini descrivono dettagli dell’impianto interno , sono frammenti di visione dell’opera stessa , che immagino gigantesca dalle parole descritte nel testo. A mio avviso, nell’intera opera e nel documento visivo mancano punti di prospettiva più ampi es l’aspetto monumentale ,la potenzialità, la gigantesca diga, la massa enorme dell’acqua la natura che fagocita e abbraccia in un sol essere unico il tutto.
Naturalmente la mia è solo una opinione ,a volte succede di non potere trovare postazioni facili nel fare fotografia.
L’opera di Ida merita l’apprezzamento per l’indagine e l’idea espressa.
Brava l’autrice che con pochi scatti è riuscita a raccontare ed entrare nelle viscere della montagna, come non scorgere dietro quei freddi macchinari la mano dell’uomo che li manovra, il freddo che li accompagna maggior parte dell’anno, i giorni di solitudine in cui il trenino li accompagna per poi abbandonarli a se stessi, il duro lavoro e la lontananza dalla famiglia. Grazie per avermi rivelato quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
leggo sempre con interesse i commenti degli altri e li trovo spesso molto centrati anche se non sempre li condivido, ma non credo che questo sia il posto dove avviare questo tipo di discussione. Vorrei però soffermarmi su un aspetto che potrà sembrare marginale e che trovo troppo spesso dimenticato e che è relativo all’inquadratura. Forse non sarà importante come il contenuto della fotografia, quello che voleva dire l’Autore ecc…ecc… però anche l’aspetto estetico conta se intendiamo sottoporre le notre fotografie al giudizio del pubblico. Vorrei quindi suggerire all’Autrice di effettuare sempre l’inquadratura un pò abbondante e solo in fase di postproduzione procedere ad un ritaglio di precisione.
Sono felice nel vedere il lavoro di Ida pubblicato su Agorà! Forse ha seguito il mio consiglio?
Comunque sia mi congratulo pubblicamente con un’autrice che ha scelto, anche attraverso l’uso della fotografia stenopeica, di sviluppare un’interessante ricerca sul territorio, mostrandoci una Valtellina spesso sconosciuta, certamente diversa da quanto proposto dai circuiti turistici, ricca comunque di contenuti storici e culturali.
Questo lavoro, imperniato sull’attività idroelettrica, massicciamente presente sul territorio valtellinese, porta in evidenza realtà architettoniche pregevoli ed uniche nel genere.
L’attività svolta per il FAI si arricchisce quindi di questa testimonianza che ci ricorda, oltre alle qualità d’ingegno dell’Italia dell’inizio del 900′, anche le innumerevoli morti che queste ciclopiche opere hanno causato. Un pezzo di storia che spesso i libri dimenticano di riportare ma che la fotografia, con il suo potere evocativo, mantiene in vita, ricordandoci che quello che siamo lo dobbiamo sempre a chi ci ha preceduto, questa volta nel bene!
L’estetica, se non è fine a se stessa ma veicola sfumature, quindi significati, fa parte del linguaggio della fotografia.
A mio avviso bastavano 6 scatti per sviluppare il tema.
Ad esempio: 1, 2, 8, 10, 13, 14.
Il taglio di alcune foto è stretto: sembra mirare più all’estetica del soggetto che al racconto.
Ad es. la foto n. 9 è a tutti gli effetti una foto astratta in quanto trasfigura il soggetto. Ed il lettore si chiede se essa è parte della girante di una turbina o altro.
In un racconto due approcci da punti di vista diversi sono troppi. O si fa racconto o si fa astrattismo; perché l’uno mira a raccontare una storia, l’altro a comunicare una fantasticazione del fotografo.
Ho avuto il piacere di sentire “dal vivo” la presentazione di questo lavoro e captare la partecipazione emotiva che ha giudato l’autrice.
Più sopra infatti leggiamo: “Similmente ad Alice nel paese delle meraviglie, lo spettacolo che si presentava davanti ai miei occhi era veramente sorprendente”.
E certamente Alice vede in modo vario e fantastico.
A noi perciò non resta che ammirare quello che Ida Oppici ci presenta e cercare di captare l’atmosfera di forza, operosità e ingegno umano che hanno creato quest’opera.
Grazie Ida per la documentazione accattivante.
Orietta Bay