Sebastião Salgado di Antonino Tutolo

Sebastião Salgado di Antonino Tutolo

La fotografia di Salgado è molto più della semplice rappresentazione dell’attimo irripetibile. Dalle foto, dalle pubblicazioni, dalle innumerevoli mostre in tutto il mondo, è possibile comprendere le sofferte e faticose esperienze di questo grande fotografo che in 40 anni ha lavorato in tutto il mondo; ma anche la sensibilità artistica, la grandezza spirituale, l’amore per la natura e per il prossimo.

Sebastião Ribeiro Salgado nasce in Brasile, nel 1944.

Consegue la laurea, il master ed infine il dottorato in Economia. Nel 1967 sposa Lélia Deluiz Wanick (laureata in Architettura e redattrice dell’organizzazione urbanistica di diverse città francesi). Dal 1968 al 1969 è Funzionario del Ministero delle Finanze di San Paolo, poi si trasferisce prima a Parigi e quindi a Londra, dove lavora come economista nell’Organizzazione Internazionale per il Caffé.

Nel 1973 intraprende la carriera di fotografo come freelance, dal 1973 al 1975 per la Sygma Agency e dal 1975 al 1979 per la Gamma Agency. In 8 anni di attività realizza 32 reportage.
Ma più che la rapida documentazione fotografica per i giornali e le riviste, che dopo tre giorni cade nell’oblio, egli preferisce il reportage di lungo corso che va alla radice del problema, testimoniandolo in modo intensivo; per cui dal 1979 inizia a lavorare per la famosissima Magnum, fino al 1994, anno in cui fonda, insieme a sua moglie, l’agenzia Amazonas Images che si occupa esclusivamente della pubblicazione dei lavori di Salgado.

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Sebastião Salgado compie lunghissimi viaggi, che spesso durano anni, occupandosi degli indio e dei contadini dell’America Latina, realizzando il suo primo libro “Altri, Americhe”, poi della carestia nell’Africa del Nord, con la collaborazione di Medici Senza Frontiere, documentata nel libro “L’uomo in difficoltà”.

Dal 1986 al 1992 è impegnato in un progetto monumentale che documenta la fine della manodopera industriale su larga scala. Nel 1993 segue la pubblicazione del libro: “La mano dell’uomo”, tradotto in sette lingue e accompagnato da una mostra itinerante in sessanta musei del mondo. “La mano dell’uomo” è il racconto epico delle enormi fatiche ma anche della dignità, dello “spirito immortale” che dal lavoro derivano all’uomo.

Nel corso di due reportage in Yugoslavia e Rwanda resta sconvolto dalle violenze cui è costretto ad assistere. Tale è il coinvolgimento emotivo con le situazioni drammatiche che si trova a riprendere che arriva quasi alla malattia. Decide allora di tornare nel suo Brasile per vivere in modo semplice, in una zona rurale, dedicandosi all’agricoltura.
La natura riesce a guarirlo e cambia il suo modo di dedicarsi alla vita ed alla professione.

Da questo momento inizia il suo impegno verso la natura e verso il prossimo, con un lungo viaggio fotografico alle origini del pianeta; un ritorno all’aria, all’acqua e al fuoco, da cui è scaturita la vita; alle specie animali che hanno resistito all’addomesticamento; alle remote tribù dagli stili di vita cosiddetti primitivi ed ancora incontaminati; agli esempi ancora esistenti di forme primigenie di insediamenti ed organizzazione umane.

Nel 2000 fotografa l’umanità in movimento dei profughi e dei rifugiati, ma anche i migranti verso le immense megalopoli del Terzo mondo, pubblicando due libri di grande successo: “Esodo” e “Bambini dell’Esodo”. Queste opere raccontano le migrazioni di massa causate dalla carestia, dai disastri naturali, dal degrado ambientale e dalla pressione demografica.

Nell’introduzione dell’Esodo, egli scrive: “Più che mai, sento che la razza umana è una sola. Al di là delle differenze di colore, la lingua, la cultura e le opportunità, i sentimenti e le reazioni di ognuno sono identici. Le persone fuggono le guerre per sfuggire alla morte, migrano per migliorare la loro sorte, essi vogliono forgiare una nuova vita in paesi stranieri: si adattano alle situazioni peggiori .. “.

Nel 2003 inizia un altro progetto di lungo periodo che si concretizza, nel 2013, con la stampa del libro “Genesis”, e dalla relativa mostra itinerante in decine di città del mondo. Dopo Roma, attualmente è in esposizione a Venezia, nella Casa dei Tre Oci, dal 1 febbraio all’11 maggio

Dopo aver raccontato, nelle altre opere, le condizioni di vita dei lavoratori, le migrazioni di massa dovute alla carestia, ai disastri naturali, al degrado ambientale ed alla pressione demografica, in Genesis egli documenta la sua spedizione, durata otto anni, alla scoperta di montagne, deserti, oceani, animali e popolazioni che fin ora sono riusciti a condurre una vita semplice in terre incontaminate, sottraendosi all’inquinante ed alienante abbraccio della cosiddetta società civile.

Dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America e dell’Africa, fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia, Genesis è un viaggio fotografico nei cinque continenti per documentare, con immagini in un bianco e nero, di rara bellezza, l’incredibile patrimonio del nostro pianeta, ancora scampato alla distruzione dell’uomo.
Genesis racconta il mondo com’era e com’è; porta a riflettere sull’urgente necessità di salvaguardare il nostro pianeta, mutando, se si è ancora in tempo, il nostro stile di vita; assumendo comportamenti più rispettosi della natura; entrando in sintonia con l’ambiente in cui viviamo. E’ l’auspicio che Salgado spera dalle sue opere.
Significativa, per comprendere il personaggio Salgado, è l’intervista rilasciata in occasione delle presentazione della sua mostra alla Casa dei Tre Oci di Venezia:

Salgado lavora prevalentemente in bianco e nero perché egli teme che il colore prenda il sopravvento “sui soggetti che volevo mostrare, sulla dignità delle persone, sui sentimenti, sulla storia. La bellezza dei colori rischiava di cancellare tutto il resto.

“Nelle mie foto c’è tutta la mia vita, le mie idee, la mia etica. Oltretutto, una foto è sempre inscritta all’interno di una storia, a cui io partecipo direttamente, dato che di solito trascorro molto tempo nei luoghi o con le persone che vorrei fotografare. Dietro ogni scatto c’è questa continuità, questa partecipazione. E l’immagine deve riuscire a trasmetterle”.

Particolarmente attento alla resa dei toni della stampa finale, applica uno sbiancante, con un pennello, per ridurre le ombre troppo intense sulla stampa.
Le foto di Salgado sono perfette tecnicamente, ma soprattutto saltano agli occhi. La bellezza e la precisione servono ad attirare lo sguardo costringendo ad osservare le sue testimonianze. Ma impongono anche rispetto per i soggetti raffigurati, che sono rappresentati sempre in modo dignitoso.

In un’intervista rilasciata in occasione della mostra Genesis all’Ara Pacis di Roma, Salgado racconta il problema incontrato nell’inquadrare una tartaruga gigante alle Galapagos:
“Come faccio a fotografare questo bestione? Normalmente io so che per fotografare qualsiasi soggetto bisogna avere una certa intimità ma come realizzarla? Mi metto allo stesso livello, mi metto in ginocchio, la tartaruga si è fermata, sono indietreggiato e lei è avanzata, ho capito che lei aveva la stessa curiosità che io avevo nei suoi confronti. Ho capito una cosa cruciale che in tutta la mia vita mi avevano raccontato bugie: l’essere umano è l’unica specie al mondo razionale, bugia! Ogni specie animale è razionale a suo modo e quella tartaruga me lo aveva dimostrato, dandomi il permesso di fotografarla, come gli altri esseri umani, ci vuole intimità e ci vuole che ti diano il permesso. E’ importante comprendere la natura e il pianeta. Solo dopo averlo capito mi sentivo in unità con il pianeta e potevo fotografare. Analogamente questo vale per i vegetali, i minerali”.

Salgado usa il 35 millimetri Leica, che, per qualità, affidabilità e soprattutto per compattezza del sistema, costituisce lo strumento ordinario di lavoro dei grandi reporter. Tuttavia nel corso della realizzazione del progetto Africa, egli ha sentito la necessità di stampare alcune scene in grande formato. La Leica non gli consentiva di andare oltre un certo formato di stampa, per cui ha pensato di utilizzare una Pentax 645 in formato 220. Ma all’inizio del progetto Genesis, egli ha calcolato che avrebbe dovuto girare il mondo con 600 rullini di formato 220, con un peso di 30 chili circa di pellicole. Ma con le misure di sicurezza instaurate negli aereoporti di tutto il mondo, dopo l’11 settembre, le pellicole avrebbero dovuto attraversare più volte i rilevatori a raggi X, con perdita di qualità dell’immagine e quindi del vantaggio qualitativo che avrebbe dovuto derivare dall’uso del medio formato. Allora il grande fotografo ha deciso di utilizzare una Canon 1Ds Mark III, da 21 megapixel, riducendo il peso previsto del materiale sensibile, da 30 Kg delle pellicole, ad 1,5 Kg delle schede digitali.
Salgado collabora con diverse organizzazioni umanitarie, tra cui l’UNICEF, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Medici Senza Frontiere e Amnesty International.
Nel settembre 2000, con il sostegno delle Nazioni Unite e l’UNICEF, ha esposto presso la sede delle Nazioni Unite 90 ritratti di bambini sfollati presi dal suo libro Children of the Exodus, donando al movimento globale per i bambini i diritti d’autore di queste foto.
Attualmente Salgado è impegnato nella campagna globale per l’eradicazione della polio, un progetto congiunto di UNICEF e OMS.

Lélia e Sebastião hanno creato nello stato di Minas Gerais, in Brasile, l’Istituto Terra, con lo scopo di ripristinare la foresta equatoriale sulle aree che erano state disboscate, con la piantumazione di migliaia di alberi.

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Salgado ha recentemente pubblicato il libro “Dalla mia terra alla terra”: un racconto orientato alla sensibilità ecologica del fotografo brasiliano in cui descrive la realizzazione dell’Istituto Terra in Brasile e il suo percorso di uomo e testimone del nostro tempo.

Antonino Tutolo

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