Il collodio – di Enrico Maddalena, I° parte

Il collodio – di Enrico Maddalena, I° parte

 

Il collodio è una soluzione viscosa di nitrocellulosa in alcool ed etere.

A sua volta, la nitrocellulosa si prepara sciogliendo del cotone puro in acido solforico e nitrato di potassio.

Scoperto nel 1846 dallo svizzero Christian Friedrich Schonbein, il collodio veniva usato in medicina, grazie alla sua proprietà di evaporare in breve tempo formando una pellicola sottile ed impermeabile, per ricoprire le ferite ed evitarne il contatto con l’aria. In farmacia hanno un prodotto che ha una funzione analoga, ma non è composto da collodio.

Gustave Le Gray descriveva il procedimento al collodio nel suo “Traité pratique de Photographie” già nel 1849, ma lo applicava sulla carta e non sul vetro.

Nel marzo 1851, l’architetto inglese Frederich Scott Archer pubblicò sulla rivista “The Chemist” un articolo: “On the use of collodion in photography”. È considerato l’inventore di questo nuovo metodo.

Archer stendeva su vetro il collodio viscoso, mescolato ad una soluzione alcolica di ioduro di potassio, quindi sensibilizzava la lastra immergendola in una soluzione di nitrato d’argento. La lastra veniva esposta ancora umida, quindi veniva sviluppata in acido pirogallico e fissata con iposolfito di sodio. Tutto questo andava fatto prima che il collodio asciugasse e divenisse quindi impermeabile alle soluzioni. Il fotografo doveva, nello spazio di circa 20 minuti, preparare la lastra, esporla, svilupparla e fissarla. Occorreva quindi portarsi dietro la camera oscura, fosse essa una tenda o un carro coperto.

Il collodio formava un’emulsione estremamente trasparente e permetteva una concentrazione di sali d’argento tale da rendere le lastre dieci volte più sensibili di quelle all’albume. Archer non si curò di brevettare il procedimento e morì in grande povertà.

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Il carro fotografico di Roger Fenton, fotografo ufficiale nella Guerra di Crimea. Fenton è considerato il primo “reporter” di guerra.

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 Giuseppe Verdi fotografato da Nadar. Da lastra al collodio umido.

 

La mia esperienza con il collodio

Mi reco dal solito ingrosso di materiali chimici ed ordino, dopo una ricerca su internet, un flacone di collodio. È ancora in vendita, chissà per quali usi. Il 13 di novembre mi telefonano dal negozio: “È arrivato il collodio”.

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Riporto al solito brani del mio diario, scritto per tener traccia delle dosi e delle modalità, ma anche delle emozioni.

26 novembre 2007

Ho appena preparato il collodio. Ho sciolto un grammo di ioduro di potassio ed un decigrammo di bromuro di potassio in mezzo ml di acqua distillata. Ho versato la soluzione nel cilindro graduato, aggiungendovi 20 ml di alcool etilico a 95°. Ho quindi aggiunto 40 ml di etere. Si è formata subito una sospensione lattescente, stratificata al di sopra di quella inferiore che è rimasta limpida. Ho poi aggiunto 40 ml di collodio al 5%, molto viscoso, versando il tutto in una boccetta di vetro scuro. Ora dovrà riposare per 48 ore.
Ho avuto un po’ da fare per eliminare dall’imbuto di vetro e dal cilindro la pellicola di collodio che vi era rimasta aderente. Per ora questi 100 ml di collodio fotografico mi bastano per parecchie esposizioni. In futuro credo che, per evitare di imbrattare la vetreria, segnerò la boccetta a diverse altezze, corrispondenti ai volumi delle diverse sostanze da mescolare.

15 dicembre 2007

Questa mattina, dopo aver pulito dalla neve l’auto mia e di mia moglie, ho accompagnato le figlie a scuola e mi sono recato al lavoro. Il parcheggio della mia scuola era quasi vuoto. Ho pensato ad un’assenza collettiva causa neve, ma poi mi sono ricordato che oggi c’è l’assemblea d’istituto. Avevo una mattinata intera di libertà! Comprato il pane e passato in libreria a ritirare “Alle origini del fotografico”, un libro di Roberto Signorini ordinato ed appena arrivato, sono tornato a casa.
Era il momento buono per la prima prova al collodio.
Ho pulito una lastra di vetro (devo tornare dal vetraio, me ne è rimasta solo un’altra) e, indossati i guanti di lattice, ho versato un po’ di collodio su di un angolo, inclinandola per farlo stendere su tutta la superficie. Sapevo già che avrei avuto bisogno di un po’ di pratica perché l’operazione non è facile ed occorre raggiungere una certa manualità. Infatti ne ho versato troppo poco ed ho dovuto aggiungerne dell’altro, cosa da evitare perché impedisce la formazione di uno strato uniforme.
Mi sono chiuso in camera oscura ed ho immerso la lastra nella soluzione di nitrato d’argento per sensibilizzarla. Si è subito formato uno strato lattescente, segno dell’avvenuta reazione di precipitazione. Dopo un minuto, l’ho posta a scolare. Quindi l’ho sistemata nello chassis. Le lastre al collodio umido vanno esposte e sviluppate immediatamente, prima che il loro completo essiccamento le renda impermeabili ai bagni. Mi sono precipitato sul terrazzo ed ho puntato la mia camera obscura sul palazzo di fronte, nuovo di tinteggiatura e privo dei ponteggi. Il cielo è nuvoloso, ma il riflesso della neve crea una luce uniforme e sufficientemente intensa. Sempre “a naso” ho giudicato buona una posa di 40 secondi (“Poi aggiusterò il tiro”, pensavo mentre ero con l’occhio al cronometro e con il copriobiettivo in mano).
Trascorsi i 40 secondi, giù a sviluppare. In breve tempo, nello sviluppo fresco all’acido gallico è comparsa l’immagine netta, nitida. Si vedevano chiaramente anche i bidoni di vernice lasciati dagli operai.

Mentre attendevo che l’annerimento giungesse al punto giusto, pensavo al fissaggio ed al timore che potesse ripetersi lo sbiadimento dell’immagine così come mi era capitato con l’albumina. Invece tutto è andato bene anche nel fissaggio. Solo in qualche punto periferico il bianco degli alogenuri non è scomparso completamente. Collodio già impermeabile? Ora la lastra è ad asciugare.

Quanto è diverso leggere un libro di storia della fotografia dal riviverne gli eventi!
Credo che per imparare, occorra fare. Un esempio. Ho acquistato da qualche giorno il “Dizionario di fotografia” della Rizzoli, in vendita scontato al 50%. E’ un buon testo, sintetico, sulla fotografia, traduzione dell’omonimo francese edito dalla Larousse, cui hanno collaborato firme importanti.
Alla voce “Collodio umido” leggo:

“…Nonostante numerosi inconvenienti: il peso e la fragilità del vetro, la difficoltà di applicare il collodio nell’oscurità e di sviluppare la lastra prima che sia asciutta, l’obbligo di trasportare una camera oscura portatile, i prodotti chimici e l’apparecchio stesso, i vantaggi di questo procedimento sono tali che compensano la difficoltà dell’operazione. La finezza della grana e la lucentezza dei bianchi permettono di ottenere una grande precisione nei dettagli e una vasta gamma di tonalità, caratteristiche che ritrattisti come Nadar e Carjat hanno saputo utilizzare al meglio”.

Ora, non è vero che il collodio va applicato al buio. Si applica in luce piena perché lo ioduro (di potassio o di cadmio) che vi si discioglie, non è assolutamente sensibile alla luce. Lo è lo ioduro d’argento che si forma in seguito all’immersione, questa sì al buio, nel nitrato d’argento.
Devo imparare a stendere bene l’emulsione. Il negativo, oltre a non essere uniforme, è leggero. Si vede che ho sopravvalutato la luminosità della scena. Ma in fondo è la prima prova.

  

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