Impressioni Venezia 2.0 – di Elena Franco

Impressioni Venezia 2.0

Opera presentata al Face to Face del
“INTERNATIONAL PHOTO PROJECT”
Milano Round, organizzato dal Circolo Fotografico Milanese.

 
Che cos’è il “visivo” delle città? Cos’è la visione per una città? E la sua memoria?
Approfondendo il significato dell’aggettivo “visivo”, consultando il dizionario Treccani emerge che:

viṡivo agg. [lat. tardo visivus, der. di videre «vedere», part. pass. visus]. – Della vista, che concerne la vista o la visione: immagini v.; facoltà v., organi v., capacità o acuità v. (sinon. di visus); memoria v. (v. memoria, n. 1a)[…]. In particolare:

1. Campo v., in ottica, lo spazio contenuto nell’angolo di visibilità: essere, entrare nel campo v. di una persona, di uno strumento
2. Ametropia v., in medicina, denominazione generale comprensiva della miopia, presbiopia e ipermetropia.
3.
a. Arti v., espressione ormai affermatasi nella storia e nella critica dell’arte rispetto a quella tradizionale di arti figurative, spec. in relazione all’arte contemporanea.
b. Poesia v., denominazione comprensiva delle correnti e delle opere poetiche del Novecento che hanno alla base elementi visuali specificamente significanti (segni e testi tipografici, segni iconici e verbali, ecc.).
Avv. viṡivaménte, per quanto concerne l’aspetto visivo.

Pare, dunque, che l’immagine della città possa essere connessa a chi la guarda e allo strumento che la registra nello spazio contenuto nel suo angolo di visibilità. Ma non solo, il “visivo” è anche legato alla memoria delle città. E, infine, è connesso alla visione della città, che può divenire anche sinonimo, con accezione progettuale e non meramente documentaria, di qualcosa di proattivo per lo sviluppo futuro delle città.

Fotografare una città o, meglio, creare un visivo di una città può avere, dunque, molte accezioni: la si può documentare in un determinato momento, andando a crearne anche la memoria, come fece Atget per Parigi, può significare prenderne un’immagine come fecero, ad esempio, Stieglitz o Berenice Abbot per New York, fino al punto di influenzare la memoria collettiva con quel visivo senza tempo, andando oltre un determinato periodo storico, può voler dire consegnarla a un infinito ciclo di ripetizione della stessa, in una sorta di museificazione perpetua della visione – e della città – come fece Canaletto, grazie alla sua camera obscura, con Venezia, addirittura ancora prima che esistesse la possibilità di registrare immagini durature attraverso  apparecchi fotografici.

Partendo proprio da Venezia, questa ricerca fotografica, che ho intenzione in futuro di estendere anche ad altre città, si interroga sull’utilità – in un momento storico in cui il flusso di immagini è continuo ed ininterrotto e tutti vi siamo immersi – di creare un visivo delle città.

Prendendo delle immagini di Venezia, da un punto di vista non convenzionale per i turisti, ma tipicamente veneziano, ossia da un’imbarcazione, a filo dell’acqua, questa serie – che ritrae alcuni, seppur irriconoscibili, monumenti veneziani come il Ponte di Rialto, il Palazzo Ducale, i palazzi lungo il Canal Grande e quelli del Ghetto – vuol far riflettere sulle motivazioni che possono ancora oggi, giustificare il fatto di fotografare Venezia.

Le fotografie prese con la fotocamera di un telefono cellulare ci restituiscono immagini sconosciute, in movimento.

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Emerge da queste fotografie, una Venezia sofferente, consumata, materica e decadente, che ci invita a riflettere sulla visione per questa città, così lontana dalle immagini dei selfies sul ponte dell’Accademia, dai piccioni in piazza S.Marco, dalle cupole delle tante chiese veneziane, dai ritratti da cartolina a cui siamo abituati dal Settecento in poi?

La Venezia che ho visto io e che consegno attraverso le immagini di questa serie può diventare un visivo per questa città? E’ un documento? E’ reale o immaginaria? Corrisponde a una visione? E’ una denuncia? E’ riconducibile a un periodo storico? Può spronarci verso una nuova visione progettuale e programmatica per il futuro?

Elena Franco

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