“18 miglia” – di Chiara Arturo
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Una foto per miglio per raccontare una distanza che è anche un ricordo, una sensazione più che un percorso: il mio viaggio tra l’isola e la terraferma.
Paesaggi ripescati in un immaginario consolidato da anni di andate e ritorni, che io sento come atmosfere interiori.
Le visioni sono alterate dalla matericità del filtro/ finestrino, aggredito dalla salsedine e dall’elemento acqua in tutte le sue forme, ma anche dalla luce, che spesso irrompe con violenza.
Onde, promontori, fari, scorci, grandi navi: diventano i personaggi di una sorta di romanzo di formazione fatto al novantapercento d’acqua.
In questo lavoro mi sono ri-percorsa. Da sempre per me lo stare in mezzo al mare rappresenta una geografia del pensiero. Inseguivo un’idea di paesaggio, in movimento, mai uguale.
Alla fine mi sono ritrovata con un mondo intimo, fatto di sospensioni che duravano cinquantacinque minuti per volta.
La mappatura del mio stare precario ed ondeggiante.
Chiara Arturo
“18 miglia”
di Chiara Arturo
“!8 miglia”, di Chiara Arturo, è un’opera animata da un’idea narrativa artistica per la rappresentazione dei sentimenti che promuove nel navigante il paesaggio marino, vista dal traghetto.
L’autrice mi ha confidato che l’Isola è Ischia e le immagini sono il risultato di numerosissimi scatti realizzati nei suoi viaggi di pendolare con Napoli.
Con il testo di presentazione l’autrice mirabilmente ci immette nel proprio sentire il navigare e ci pone nel giusto punto di lettura delle sue immagini sinestetiche e metaforiche.
Sinestetiche perché chiamano i sensi al sentire il mare nelle sue più varie condizioni: placido, furioso, scintillante, acqueo o immateriale come un miraggio.
Metaforiche nel sollecitare la proiezione psichica verso stati d’animo pacati, tormentati, spaventosi, onirici.
Tutte le immagini sono filtrate dal vetro protettivo che separa e protegge l’interno del natante dall’azione del mare. Anch’esso, come velo interpretativo, concorre a promuovere le medesime due figure retoriche con le tracce di salsedine, gli schizzi di mare, gli appannamenti, le rifrazioni che generano i bagliori.
Complimenti a Chiara Arturo di averci fatto condividere emozioni e sentimenti per lei quotidiani ma che a noi parlano di un mare del Sud che accende intensamente un senso di libertà profumato di miti arcaici che ci scaldano il cuore.
Jaques Brel narrava al navigante che vive in ognuno di noi:
“Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.
Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.
Conosco delle barche talmente incatenate
che hanno disimparato come liberarsi.
Conosco delle barche che restano ad ondeggiare
per essere veramente sicure di non capovolgersi.
Conosco delle barche che vanno in gruppo
ad affrontare il vento forte al di là della paura.
Conosco delle barche che si graffiano un po’
sulle rotte dell’oceano ove le porta il loro gioco.
Conosco delle barche
che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,
ogni giorno della loro vita
e che non hanno paura a volte di lanciarsi
fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.
Conosco delle barche
che tornano in porto lacerate dappertutto,
ma più coraggiose e più forti.
Conosco delle barche straboccanti di sole
perché hanno condiviso anni meravigliosi.
Conosco delle barche
che tornano sempre quando hanno navigato.
Fino al loro ultimo giorno,
e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti
perché hanno un cuore a misura di oceano”.
Il mare dà. Il mare toglie. Il mare è acqua e l’acqua è vita.
Un po’ di invidia per l’autrice che, sebbene costretta in una vita da pendolare con tutte le sue sfaccettature negative del trasferimento del disagio etc., ha saputo trovare in questo il lato buono da spingerla a farne un progetto.
Immagini impresse nella sua memoria dalla quotidianità di quei viaggi, ma sempre diversi tanto da farli imprimere nello scatto per renderli eterni.
Momenti condivisi con se stessa ed i suoi pensieri, immersa nell’azzurro del mare con i suoi infiniti spazi.
18 miglia che potevano durare un secondo o un’ora a seconda di cosa quegli spazi infiniti riuscivano a far passare dagli occhi alla mente. Il finestrino è un filtro che protegge, ma anche che separa, dai rumori dai suoni dagli odori che il mare ci regala.
Non abbiamo mai i soliti occhi per guardare le cose.
Se avessi guardato questo progetto alcuni mesi fa sicuramente mi sarei posto in maniera totalmente diversa da oggi, infatti per motivi di lavoro sto per unirmi al popolo dei pendolari, e come l’Autrice avrò anche io le mie miglia da attraversare, Ischia come il Giglio.
Un oblò come cornice da dove osservare il mondo durante quell’intervallo di vita sospesa che si ripete giorno dopo giorno, ed entra a far parte di te, proprio come il sale del mare penetra nel ferro della nave scavandolo.
Oggi ho gli occhi giusti per vedere.
Non è solo un difficile andare e tornare quello che ci racconta Chiara, ma una quotidiana immersione nella sua anima.
Le parole che affianca alle immagini non fanno altro che confermare quello che le fotografie già raccontano molto chiaramente. Immagini che sono metafora di un sentimento di precarietà dove tutto è ondeggiante, ogni punto di riferimento effimero e anche i promontori della costa, alterati da spruzzi di salsedine e di luce, appannati dal respiro dei nostri pensieri, divengono irreali.
Un mare visto dall’interno.
Interno della nave, metafora del nostro intimo e interiore pensiero.
Il vetro ci separa dai profumi, dai rumori, dagli spruzzi dell’acqua sulla pelle… ma entrando nelle immagini la separazione si dissolve e l’anima percepisce che gli occhi vedono attraverso.
Complimenti all’autrice.
Opportunamente le letture riportate in calce ai portfolio in questo prezioso blog solitamente si soffermano su soggetto e forma, spesso prevalgono le parole sulla prima situazione, raccontano di esperienze personali simili. Commentare un lavoro che ha come tema il pendolarismo diventa più semplice se questa esperienza è stata vissuta in prima persona, essendo una pratica comune a tantissime persone l’ho provata in diverse situazioni anch’io. Mai però che nell’affascinante per me, visto che abito in una piana sotto il livello del mare, dentro un’imbarcazione in mezzo alle onde. Semplificando ci sono due possibili situazioni: condividere il tragitto con altri viaggiatori e farla diventare un’estensione della routine giornaliera, oppure estraniarsi del tutto dal luogo-spazio tanto si è visto già mille volte quello scorre “fuori” dal finestrino, oblò, porta, foro, pertugio. Produrre fotografie in questo non luogo e non spazio si finisce inevitabilmente per riprodurre il paesaggio circostante in modo indefinito, non ci interessa mostralo perché lo conosciamo troppo e non ci sorprende più. Lo metabolizziamo meglio se occultiamo i particolare che riteniamo per noi (per gli altri?) insignificanti. Questa tipo di fotografia come mostrata dalla brava autrice affascina sempre i lettori di portfolio nei tavoli, meno mostro è più fornisco a loro occasione di raccontare con parole saggie quello che non si vede.
Non credo che si faccia questo tipo di fotografia per gusto estetico o per gioco. Credo invece che nasca dall’esigenza di dare una forma ai propri pensieri, ai propri stati d’animo, anche per prendere coscienza delle proprie ansie, preoccupazioni, disagi, e per riconoscere tutte le cose positive che le controbilanciano. Necessaria la mediazione di un supporto, il filtro/finestrino, che con la sua superficie permette di materializzare la visione della propria interiorità vissuta. Molto giusta la scelta del formato quadrato che non permette deviazioni, non permette di spaziare con l’occhio ma inchioda nella visione voluta dall’autrice. Dopo tanto ondeggiare l’ultimo fotogramma di calma, forse agognata. Un tipo di fotografia che non può essere guardata superficialmente, come quella di Ghirri ad esempio, ma che ha bisogno di essere meditata, che desidera guardarci anch’essa, guardarci dentro. Come si suol dire infatti noi guardiamo una fotografia, ma anch’essa ci guarda e ci riguarda, perchè in essa vediamo ciò che siamo.