Nan Goldin – di Francesca Lampredi
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Progetto editoriale: Hipsterismi fotografici
a cura di Francesca Lampredi
NAN GOLDIN
Nan Goldin è la fotografa che ha dato avvio a foto grintose, di indagine e rappresentazione allo stesso tempo intimista di ciò che i media non mostravano negli anni ’80 del XX secolo.
Immortala come in pagine di diario le foto degli amici sotto effetti di stupefacenti, nella loro ricerca di libertà sessuale e nella loro identità di genere.
Nan Goldin diventa ossessionata dalla fotografia a soli 15 anni frequentando una scuola hippy a Satya, in Massachusetts, dove trascorre la maggior parte del tempo a cavalcare cavalli, a guardare film Hollywoodiani e dove non vi è una suddivisione in classi. Proprio in questo ambiente riceve la sua prima Polaroid da un insegnante e inizia a scattare. Le prime fotografie ritraggono lei stessa ma soprattutto la sua amica drag queen David Amstrong. Grazie a quest’ultima si avvicina all’ambiente drag, inizia a interessarsi alla trasformazione e all’identità di genere.
Le fotografie di Nan Goldin colpiscono per il grande rispetto che la protagonista nutre nei confronti dei soggetti, li rappresenta sempre senza violentare la loro intimità.
Il lavoro più celebre della Goldin è sicuramente “The ballad of sexual dipendency”, pubblicato nel 1986, dove in 700 scatti rappresenta quella che considera la sua famiglia, non per legami sanguigni ma per una morale condivisa ovvero quella di vivere pienamente l’hic et nunc.
La precisione tecnica non interessa all’autrice ma l’onestà di ciò che intende rappresentare. Colori saturi e flash caratterizzano le istantanee di Nan Goldin, evocando uno spazio interiore immerso in una solitudine abissale e animato da personaggi genuini che narrano vicende di abusi. Ciò che a questa grande autrice interessa è anche il concetto di memoria, preservare il ricordo di individui che per l’abuso di sostanze come l’eroina hanno poi conosciuto una morte davvero prematura.
Questo meccanismo di surgelare il ricordo della persona cara deriva da un trauma infantile. Infatti Nan perde la sorella a soli 12 anni. Dopo il suicidio della sorella la fotografia diventa un metodo per esorcizzare la paura della perdita, anche se in realtà Nan Goldin dichiara che alla fine si rende conto che ciò che ha fotografato è in realtà ciò che ha perso nella vita.
La fotografia hipster considera Nan Goldin un’icona, proprio per il voler affermare l’identità del soggetto all’interno di un macrocosmo sempre più liquido. Nan Goldin ha influenzato anche la fotografia nei social proprio nel concetto di autenticità. Le sue Polaroid possono essere rievocate negli scatti tramite i-phone pubblicati poi su Instagram e Facebook. Altri aspetti che troviamo sono la rappresentazione di interni claustrofobici, quasi tutti gli scatti di Nan Goldin sono all’interno di appartamenti per separare l’individuo e il suo gruppo dal resto della collettività.
Vi è però una grande differenza tra i soggetti rappresentati da Nan goldin, i loro drammi esistenziali derivano da una necessità di affermare la diversità mentre nella società liquida alcuni atteggiamenti sono la testimonianza o una reazione provocatoria alla noia.
Francesca Lampredi
Lettore della Fotografia FIAF
Il fotografo quando rivolge uno sguardo disincantato sulla vita, si lascia alle spalle ogni ipocrisia per avviare il processo simbolico dei momenti critici o degli stili di vita non convenzionali.
In questi simboli c’è sempre da scoprire un volto dell’umanità che ancora non conoscevamo o non volevamo portare alla coscienza.
Le fotografie di Nan Goldin nascono autenticamente nel pulsare delle esistenze e spesso ci parlano con linguaggio metonimico, mostrando i segni sofferti dal corpo per parlare delle storie difficili che li hanno causati o come Diane Arbus dona dignità ad ogni forma di comportamento relazionale e condizione umana.
Le immagini diventano un pretesto di riflessione sulla vita, mantenendo sempre un rispetto per l’Altro.
Nel momento che queste immagini sono veicolate nei mezzi d’informazione debbono essere lette come “super stimoli” alla stessa stregua di un’opera d’arte.
La vita, anche negli aspetti più delicati, se guardata nella stanza dell’arte offre all’artista una libertà superiore in ogni aspetto dell’espressione e chiede nel contempo una purezza dello sguardo altrettanto superiore, in chi vi si accosta, per non scivolare nel giudizio o nell’emulazione.
Complimenti a Francesca Lampredi per la conduzione stimolante del progetto intrapreso.
La ricerca di Francesca inquadra perfettamente la personalità contorta di Nan Goldin.
La fotografa americana riesce a documentare le sofferenze della sua “famiglia” con passione, riservatezza e una amorevole vicinanza. E’ la fotografia degli ultimi, dei “brutti, sporchi e cattivi”, un’interminabile serie d’immagini che l’hanno resa protagonista assoluta della fotografia istantanea e diaristica, di chi non cerca l’inquadratura perfetta ma di trattenere il ricordo, l’essenza.
E’ la forza e il coraggio di chi si autoritrae un mese dopo essere brutalmente pestata dal proprio fidanzato, non solo un eroico atto di denuncia ma un modo di sfidare il mondo per ribadire la propria presenza.
Complimenti di nuovo a Francesca per aver tracciato lo scorrere della vita di Nan e dei suoi amici, le difficoltà dovute al vivere ai margini tra droghe, alcool e violenza, la loro determinazione al rimanere attaccati alla vita nonostante la consapevolezza di rischiare ogni momento di perderla.
Bell’introduzione di Francesca alla Glodin, raccontata con una sintesi diretta al contenuto e di facile comprensione.
Goldin ha sicuramente scattato queste foto per fermare un momento “effimero” e renderlo “eterno” almeno per se stessa, come d’altra parte è il ruolo della fotografia almeno nella quasi totalità dei casi.
Personalmente trovo che però la tematica in sé, per il suo contenuto e a parte il ruolo stesso della fotografia, sia solo forzatamenmte in linea con il tema DiCult.
Grazie Francesca per il tuo contributo molto istruttivo.