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E' ANCORA FOTOGRAFIA? Le immagini al tempo del WEB e dei social

 
 
 
 
 
 
 

E’ ANCORA FOTOGRAFIA?
Le immagini al tempo del WEB e dei social
– a cura di Gabriele Bartoli 

Questo il titolo della giornata di studio sulla fotografia contemporanea che si è tenuta sabato 25/05 nella gremita aula magna dello splendido Museo del Novecento M9 di Mestre. 


Organizzata dalla Fondazione di Venezia e dalla Casa dei Tre Oci.
Tanti gli ospiti intervenuti: in mattinata Cristina Baldacci dell’Università Cà Foscari, Giovanni Pelloso sociologo e e docente di Linguaggi della Pubblicità all’Università Iulm di Milano, Enrico Ratto fondatore del blog Maledetti Fotografi, Anna Acquistapace dell’agenzia di content marketing Luz hanno dialogato tra loro coordinati da Denis Curti, direttore della Casa dei Tre Oci.
Nel pomeriggio, con la conduzione di Michele Smargiassi, giornalista e fondatore del blog Fotocrazia, sono intervenuti: Anna Fici dell’Università di Palermo, Andrè Ghuntert dell’Ecole des hautes etudès en science sociales di Parigi, Attilio Lauria Vice Presidente Fiaf, Ilaria Barbotti Digital Pr e fondatrice della community Instagram Igersitalia, Stefano Mirtiesperto di social media e interaction design. 

“Nel mondo della fotografia, se non hai una storia non hai niente”. Con questa frase Denis Curti ha aperto la sessione mattutina. Il contenuto delle immagini è determinante e si può raccontare con qualsiasi strumento, dallo stenopeico allo smartphone di ultima generazione, passando attraverso le macchine fotografiche tradizionali.
Si sono poste in evidenza le tante differenze e i vari usi della fotografia, cercando di analizzarne tutti gli aspetti: innanzitutto la differenza tra immagine analogica e immagine digitale; certamente entrambe sono “costruzioni/interpretazioni della realtà” operate dall’autore. Ognuna può essere il risultato finale di una ricerca approfondita, o di uno “scattare e basta”; la differenza la fa colui che preme il pulsante di scatto che può essere più o meno consapevole e responsabile delle scelte effettuate.
La differenza tra una fotografia stampata (picture) e l’immagine che vediamo su monitor o video di varie dimensioni (image).  La differenza di una vintage print che osserviamo con religiosa reverenza, o un’immagine che vediamo mentre scorriamo svogliatamente il nostro smartphone.
Ancora, la differenza tra una fotografia nata per una mostra, frutto di una ricerca di mesi o anni e una che nasce per vivere solamente dentro le “stories” di Instagram, che durano esclusivamente ventiquattr’ore.
L’importante differenza tra la fotografia d’autore, che indaga verticalmente, che utilizza un linguaggio personale e originale, che compie una serie di scelte in rapida successione (fuoco, distanza, colore), scelte che determinano il senso di un’immagine pensata e diventano “posizione”, in tutti i sensi.
E chi “scatta e basta”, senza guardare nel mirino, una fotografia che diventa informale, senza spiegare nulla.
Indipendentemente dal mezzo di registrazione usato.
Chi si fiderà allora di noi? 

Viviamo in un periodo di crisi generalizzata, in cui le fake news hanno snaturato il mondo dell’informazione, anche delle immagini. Editori, social media, media company, hanno la necessità di stimolare l’interesse del pubblico accettando la sfida della contemporaneità: tornare ad essere competitivi in un mercato che considera la fotografia una commodity.
Ci si fiderà di chi continuerà a raccontare storie “vere”, raccontate con immagini di qualità e senso di responsabilità, di chi può offrire un nuovo punto di vista, di chi si mette costantemente in gioco diventando parte del racconto.
L’ Uomo social è ancora uomo?
La fotografia serve all’uomo per farlo riflettere, per farlo pensare. Solo così può crescere.  
Oggi l’immagine ci fa riflettere meno, oggi si guarda ma non si vede, come si guarda la televisione. Il guardare deve tornare ad essere “lento” in una società nella quale tutto è accelerato, nella quale la velocità è un valore, la nuova cultura apprezza la velocità. Siamo utenti e consumatori di relazioni verbali e non, con l’affanno di rincorrere un nuovo desiderio in una realtà dominata dall’istante.
Il passato – presente – futuro si possono tradurre nel nuovo “Futurismo dell’Istante”.
Prigionieri di un’istantaneità di fatto inabitabile, senza memoria del passato ne immaginazione del futuro siamo destinati alla nuova ansia del futuro. Incerti di noi stessi, inanelliamo prove di esistenza; nel “presentismo” si maturano certezze: “…c’ero anch’io, dunque esisto!” ma la paura è di non tenere il passo, di scomparire, dal non essere presenti agli altri, necessario riconoscimento per esistere come soggetti. L’essere al mondo oggi, è cercato attraverso una manifestazione oggettiva dell’esistenza. E la fotografia, così adoperata, ne fornisce l’occasione. L’azione fotografica sta nella paura di non sentirsi parte del mondo, il selfie allora risulta la ricercata conferma dell’identità all’interno di uno spazio pubblico e universale. 

Siamo passati da consumatori a produttori di fotografia in maniera seriale.
Il passaggio dall’analogico al digitale è stato l’occasione per riscrivere il nostro vocabolario visivo e l’enorme quantità di di immagini prodotte ci obbliga a nuove riflessioni e nuove consapevolezze.
Nell’era della sua reale riproducibilità tecnica, la vera rivoluzione della fotografia è stata offerta dalla Rete, la quale ha dato possibilità di una  condivisone ubiqua, orizzontale e simultanea delle immagini. 

La fotografia non è più quella cosa che per oltre un secolo e mezzo la parola ha significato, si è sempre detto che era specchio (della realtà),  bisogna ora capire cosa è cambiato davanti a questo specchio, ha sicuramente perso la sua sacralità, la sua aura di arte. 

Con la fotografia Social siamo alle prese con una bulimia di immagini che sintetizza il messaggio non verbale e accorcia le relazioni senza approfondirle. Per voglia di comunità, per lanciare un discorso, la fotografia Social si può definire “fotografia parlata”, che riassume e descrive; con le sue regole, che sbriciolano quelle che hanno sempre regolamentato quella tradizionale ma che sono riconducibili a precisi caratteri identitari, passando da una ricerca della “natura delle immagini”, a una “funzione delle immagini.” 


Concludendo questo riassunto solo parziale delle tante argomentazioni, sintetizzo un paio di passaggi che ritengo i più interessanti: è ora di uscire dalle sterili polemiche di “buone” o “non buone” fotografie.
Chi decide se un’immagine è “buona” o “non buona”?
Chi si erge ad arbitro arrogandosi il diritto di decidere?
Con che autorità?”
Michele Smargiassi ha poi concluso la giornata con questa frase:
“.. E’ ancora fotografia? La fotografia non è cambiata, siamo noi che siamo cambiati e stiamo ancora cambiando. Dovremmo chiederci come. “ 


 
Gabriele Bartoli
Animatore Culturale FIAF
Lettore della Fotografia FIAF

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6 commenti

  1. Il profeta del fenomeno di comunicazione per immagini che stiamo vivendo si chiama Marshall MacLuhan che già nel 1964 pubblicò “Gli strumenti del comunicare” e ci disse che “Il medium è il messaggio”, ci avvertì della “narcosi delle immagini”, ma come sempre i profeti sono poco capiti. Consiglio a tutti la rilettura oggi di quel libro che fa capire che il mondo dell'”image” siamo noi che lo animiamo e ne siamo responsabili oltre che vittime.
    Sergio Magni ci insegnò che gli assiomi della fotografia sono: Rappresentazione, espressione, vissuto. Questo per dirci che la fotografia consapevole può essere un linguaggio che nasce dal soggettivo per espandersi nel collettivo.
    Roland Barthes in “Ovvio e ottuso” (1982) si chiedeva: Come leggiamo una fotografia? Che cosa percepiamo? In che ordine, secondo quale itinerario? Che cos’è, in se stesso il percepire?.
    La lettura è un rapporto lento con l’immagine, per poter essere profondo al punto tale da verbalizzare ciò che comunica per conseguire una consapevole comprensione del suo significato.
    Ma in realtà ciò che accade alla gente è quello di essere vittime inconsapevoli del messaggio fotografico che quando si guarda fulmineamente parla ai sensi. E’ un messaggio penetrante che, solo con uno sguardo, tocca le corde più intime delle persone e ne condiziona il comportamento.
    Se si impara a leggere l’immagine si impara a smontare quel meccanismo espressivo che la rende così efficace. Leggere un’immagine è come smontare un’arma che quando è scomposta non spara più.
    Grazie a Gabriele Bartoli per la tua necessità di condividere le esperienze culturale che vivi.

  2. ho appena riletto l’interessante articolo di Gabriele Bartoli “paragoni impossibili” (https://fiaf.net/agoradicult/2019/03/24/paragoni-possibili-0-1-di-gabriele-bartoli/#comment-42387),
    e trovo qui appena pubblicato questo resoconto della giornata di studio sulla fotografia; mi viene da dire che il lavoro di Doug Rickard realizzato utilizzando le immagini di Google Street View è proprio figlio di questa “bulimia d’immagini”, o no?

    1. Ciao Carlo, la questione che poni si può leggere in due modi:
      certo la moltitudine di immagini di Google e dei suoi servizi (Google Street View e Google Heart ad es.) alimentano la bulimia di immagini di cui sopra.
      Doug Rickard se ne appropria e le reinterpreta per altri scopi personali. Egli, in questo caso, non è un produttore ma un “riutilizzatore” di immagini, alle quali dona nuova veste e connotazione.
      Certo, si potrebbe definire anche figlio di questa “bulimia visuale”, ma controcorrente al sistema attuale.

      1. grazie Gabriele per la tua precisa risposta.
        Concordo con te e in effetti anch’io ho pensato al riutilizzo proprio come Joachim Schmid, già nel 1989 teorizzava e praticava.
        È sintomatico che già trent’anni, fa in epoca pre digitale, si sentiva il bisogno prendere le distanze da una sovrapproduzione di immagini.
        «Nessuna nuova fotografia finché non siano state utilizzate quelle già esistenti!», diceva il tedesco.

  3. Grazie a Gabriele Bartoli per questa riflessione, quanto mai necessaria, e grazie al nostro Direttore per i riferimenti di approfondimento. Probabilmente sarà ancora una volta il tempo a conservare per i posteri le immagini capaci di testimoniare la nostra epoca e ad ingoiare invece tutta quella miriade di immagini che non hanno la capacità di arrivare alle profondità dell’animo umano.

  4. Michele Smargiassi ha poi concluso la giornata con questa frase:
    “.. E’ ancora fotografia? La fotografia non è cambiata, siamo noi che siamo cambiati e stiamo ancora cambiando. Dovremmo chiederci come. “
    E se lo chiedessimo alla fotografia visto che lei non muta (sia perché non cambia, ma anche per essere silente) noi fotografi mutanti. Adoro i critici che hanno l’abilità di scrivere bellissime frasi senza dire nulla.

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