PARAGONI POSSIBILI 0.1,
Robert Frank e Doug Rickard –
di Gabriele Bartoli
“L’atto di paragonare serve a mettere a confronto due persone o due cose per giudicare o delle loro somiglianze o diversità o per riconoscere quale sia il valore dell’una rispetto all’altra”.
Questa la spiegazione del termine tratta dal dizionario.
Quello che vorrei proporre appunto è un confronto tra due autori che attraverso i propri lavori fotografici affrontano lo stesso tema, in maniera contrapposta o complementare. Il paragone può apparire irriverente se tra le loro opere intercorrono decine di anni e se, come in questo caso, utilizzano due stili completamente diversi.
Gli autori presentati ora sono: ROBERT FRANK e DOUG RICKARD.
Le opere: THE AMERICANS e A NEW AMERICAN PICTURES.
Robert Frank, fotografo svizzero, nel 1955 ottenne da una borsa di studio promossa dalla Fondazione Guggenheim per realizzare un lavoro fotografico sull’America; acquistò una vecchia automobile e con essa percorse migliaia di chilometri attraverso 48 stati riprendendo 24000 fotografie. Dopo un enorme selezione, solo 83 immagini comporranno il libro The Americans.
Doug Rickard, nato in California nel 1968, è un artista-fotografo che utilizza la gallery infinita di Google Street View; milioni di scatti raccolti in ogni angolo del pianeta dalla vettura attrezzata con una speciale dotazione fotografica. Rickard cataloga e archivia 15000 immagini, scegliendone 80 per il suo libro A new American Pictures.
L’uso massiccio di sfocature, di illuminazioni tenui e di sovraesposizioni recuperate in camera oscura; i tagli compositivi estremi e l’ostentata indifferenza verso la ricerca di momenti salienti, fanno di The Americans qualcosa di inatteso per l’epoca, addirittura di sovversivo. Sono questi i mezzi espressivi adottati dall’artista per rappresentare la propria visione personale degli Stati Uniti, dove volle andare disse: “…per fotografare gli uomini liberi”.
Per contro, Rickard, nei quattro anni della durata della sua ricerca su Google Street View, ha esplorato le strade d’America alla ricerca di luoghi dimenticati, economicamente svantaggiati e quasi abbandonati. Dopo aver individuato le immagini da utilizzare, le ha rifotografate con la propria fotocamera montata su di un cavalletto e in bassa risoluzione, per liberare le immagini dalle sue origini tecnologiche e volerle restituire in forma quasi tradizionale, oltre che per favorirne un effetto pittorico.
Entrambi fanno riferimento alla fotografia di Walker Evans, Rickard senza dubbio si avvicina maggiormente anche agli autori della FSA ricercando maggiormente il degrado urbano e rurale. Le figure che l’obiettivo riconosce vengono sfocate in volto dal programma di Google mascherandone l’identità; questo anonimato aggiunge surrealismo e rafforza l’isolamento dei soggetti, sottolineando gli effetti di una struttura sociale sempre più stratificata.
Strade, volti, città, bar, negozi, marciapiedi; un lunghissimo tragitto e un immenso reportage, indugiando sui luoghi banali e per quei soggetti generalmente considerati non degni di attenzione.
Le singole immagini di The Americans riflettono la visione di Frank dell’America degli anni ’50, un’epoca caratterizzata da una cultura piena ancora di pregiudizi razziali; il suo sguardo europeo irrompe nel panorama di una nazione proiettata verso la scalata all’egemonia mondiale, ma lo sguardo dell’autore ne evidenzia invece la disparità dell’immaginario americano.
Il lavoro di Rickard evoca un naturale collegamento con la tradizione della fotografia di strada, una narrativa documentaria che in maniera asettica ed esclusivamente oggettiva presenta un ritratto fotografico dei diseredati, socialmente ed economicamente impotenti, che a distanza di più di mezzo secolo vivono un inversione del grande sogno americano.
LIBERE CONCLUSIONI
Mettere a confronto due lavori così diversi in un primo momento può apparire sacrilego; una delle pietre miliari della Fotografia accanto ad un lavoro di immagini scaricate da Google, ma credo si debba cercare di andare oltre l’evidenza per cercare differenze e analogie.
The Americans è frutto del lavoro sul campo, o meglio, sulla strada, da parte dell’autore, che ha dato una forte connotazione soggettiva e autoriale, tant’è che inizialmente ha subito aspre critiche sia per la visione degli USA che ha fornito, sia per l’aspetto fotografico troppo al di fuori dei canoni formali dell’epoca.
Lo stesso A new American Picture si può certamente definire un lavoro al di fuori dei canoni tradizionali, asettico, in cui non esiste la testimonianza diretta degli eventi raccontati; non c’è poesia, non c’è calore, profondità, nemmeno leggibilità nelle immagini di Rickard. Forse non si percepisce nemmeno un anelito di vita in questi paesaggi animati; immagini silenti, tempo sospeso, azioni sospese.
Tempi e azioni sospese che spesso sono presenti anche nelle immagini di Frank; entrambi, a loro modo attratti dal non voler raccontare un evento ma mostrare in maniera tematica e approfondita l’uno, documentaria nelle immagini ma concettuale nella struttura del lavoro l’altro, la propria visione personale dello scorrere della vita.
Frank immergendosi completamente in essa, Rickard prelevandola e filtrandola attraverso lo schermo del computer.
Gabriele Bartoli
Animatore Culturale FIAF
Interessante lettura parallela. Pur avendo preso in considerazione quel filone di ricerca, non conoscevo Rickard: ottima segnalazione. Le immagini “di Rickard” sono fortemente espressive ed allineate rispetto all’immaginario moderno, fatto di un uso diffusissimo di Street view.
Anch’io credo, come Gabriele, che non bisogna aver paura di mettere a confronto epoche, tecniche, fotografie differenti. Non si può rimanere ancorati ai nostri “classici” come se il mondo si fosse fermato ad un certo punto e non fosse invece andato avanti, verso nuove visioni (nel caso della fotografia o, più ancora, del cinema) e nuovi spazi di senso. D’altronde, la “comparazione” è uno dei metodi coi quali vengono studiate (e, in qualche modo, catalogate) le letterature. Figuriamoci se ciò non debba avvenire con la fotografia! Certo, il campo fotografico è completamente diverso da quello letterario; da noi non ci sono lingue differenti, tradizioni filologiche, traduzioni da un idioma all’altro. Inoltre, la fotografia è ancora troppo giovane per riflettere appieno dei contesti socio-culturali che sono invece da decenni maturi e propri, in letteratura. Da noi, in fotografia, sono altri i sistemi a cui ci riferiamo, l’immagine e i suoi significati hanno un che di generale che travalica le frontiere e le “culture”. Quel che possiamo vedere, per non perdersi in un discorso troppo lungo da affrontare qui, sono le differenze quasi extra-linguistiche che l’evoluzione del nostro mondo delle immagini sta evidenziando. Così come in un precedente intervento di Gabriele, quello sulla appropriation art, sta venendo fuori il fortissimo interesse verso la fotografia mediata dalle/nelle reti sociali (siano essi Google oppure la fotografia smart o altri) in cui il ruolo del “fotografo” non è più quello dell’autore ma, al contrario, quello dell’operatore cioè di colui che opera (concettualizza, elabora, “mastica e ridigerisce”) col lavoro altrui, con immagini in qualche modo di archivio, con pezzi di realtà prodotti in automatico. Non credo nemmeno si possa tirare in ballo il concetto di “artista” (resterei più vicino alle definizioni di Flusser, di cui consiglio la lettura per riattualizzare le trasformazioni che ci sembrano nuove oggi e che invece gli studiosi più attenti avevano colto ormai diversi decenni fa!) che presuppone un lavoro culturale (con Bianciardi, ma anche con i surrealisti che avevano una loro profondissima ed accurata elaborazione teorica) più ampio e profondo. Insomma, a mio avviso, ritengo sempre fondamentale il ruolo di elaborazione che solo l’autore maturo e consapevole può apportare alla realtà che lo circonda. Il viceversa, mi lascia per ora scettico e freddino: la realtà che cambia l’artista può generare mostri, magari affascinanti e distopici abbastanza da farci credere in una rivoluzione che invece ancora non c’è. Ben vengano quindi queste occasioni di riflessione che generano evidentemente una scossa salutare e la possibilità di un, seppur breve e virtuale, dibattito.
Interessante questo “Paragoni possibili”, prima tappa di un percorso che ci fa scoprire analogie con autori, che hanno scrutato il mondo in epoche diverse.
Questi autori li conoscevo, ma non ero riuscito a cogliere queste similitudini.
Grazie a Gabriele, che con la sua curiosità li ha segnalati pure a noi.
Danilo Baraldi, Grandangolo Carpi.
Non è affatto irriverente, anzi, credo sia necessario guardare al passato e trovare analogie per poter interpretare l’oggi. Interessante e stimolante ricerca.
Intriganti le riflessioni che Gabriele Bartoli ha provocatoriamente lanciato in questo suo interessantissimo approfondimento. Non c’è nulla di irriverente nell’accostare un mostro sacro della fotografia come Robert Frank ad un fotografo della nuova generazione come Doug Rickard; ciò appare evidente osservando le immagini così come sono state appaiate da Gabriele. Il messaggio è identico, il mood e la cifra tecnica sono diversi. Le immagini prelevate da Google finiscono per assumere un significato sociale molto simile a quello che Frank aveva voluto rappresentare; siamo in epoche diverse , ma in fondo nulla è cambiato. Complimenti a Gabriele per questo bellissimo contributo culturale.
Grazie a Enrico, Antonio, Danilo, Piera e Massimo; le vostre riflessioni hanno ampliato le considerazioni che volevo proporre e danno sostanza al progetto di cui questa è la prima puntata.
Alla prossima.
“Paragoni possibili 0.1” Gabriele Bartoli ha senso perché il tema delle due opere è lo stesso anche se da considerare un salto temporale.
Paragonare serve anche solo per capire attraverso le differenze il “valore assoluto” di ognuna delle due opere.
In questo caso, permette di aprire la riflessione fondamentale sulla nostra società postmoderna che acquisisce informazioni e sviluppa il proprio immaginario collettivo con le immagini.
Il post inizia, correttamente, col presentare i processi creativi degli autori:
– Robert Franck che realizza fotografie a contatto diretto con la realtà.
– Doug Rickard che sceglie immagini già realizzate da Google e realizza un editing di senso.
Dico correttamente perché il significato di un’opera dipende anche dal processo creativo che l’ha generata.
R. Franck attraverso la “conoscenza diretta” della realtà americana esprime nelle immagini il suo rapporto soggettivo che è pregno delle visioni libertarie della Beat generetion.
D. Rickard realizza la sua opera con la conoscenza mediata dell’America più recente non realizzando immagini ma scegliendole, siamo nella poetica dell’occultamento dell’autore teorizzata da M. Duchamp e poi elaborata nell’ambito dell’arte concettuale.
Negli anni ’50 un’opera come quella di Rickard non avrebbe ricevuto un ascolto come quello che noi oggi le dedichiamo, questo perché l’idea del fotografico era legato agli assiomi della fotografia: rappresentazione, espressione, vissuto.
Per noi postmoderni, inconsapevolmente, l’immagine ha ormai raggiunto un livello di valore semantico denso, è sostanza come la realtà e l’assimiliamo come se fosse la realtà, per questo siamo sulla stessa lunghezza d’onda di Rickard.
Paradossalmente entriamo a contatto con la realtà da dietro uno schermo, non senza emozioni ma emozioni che si possono arrestare con un clic. Frank no, lui era immerso nella realtà con tutti i suoi sensi e viveva la libertà superiore dell’atto artistico tanto da stupire J. Keruac.
Questa è la dimensione che mi interessa nel paragonare le due opere, mi interessano entrambe per ragionare del loro valore artistico, anche se di natura esattamente opposta.
Ma che uomini stiamo diventando?
Grazie Gabriele per questo interessantissimo approfondimento. So che sei un pozzo di conoscenza in materia fotografica e quindi attendo con interesse prossimi post!
Grazie ancora Gabriele: sfogliando il volume di Rickard mi sono accorto che l’Autore aggiunge in legenda alla foto un codice che identifica la foto e la denomina, che sembrerebbe una coordinata geografica e che non lo è. E’ parte del progetto artistico: il luogo resta reale e misterioso allo stesso tempo, perché non si può agevolmente ritrovare su Gmaps.
grazie a Gabriele Bartoli per questo suo post.
Avevo visto il lavoro di Rickard sul libro di Martin Parr (the photobook volume III) ma sinceramente non lo avevo cosiderato particolarmente interessante e non ricordavo nemmeno il nome dell’autore infatti ci ho messo parecchio tempo per ritrovarlo!
Grazie a questo articolo ne ho compreso bene il valore.