Michals realizza scene narrative che ci portano in un viaggio nella sua realtà e che pongono domande difficili che ci costringono a esaminare idee che vanno oltre il mondo dei fenomeni, oltre il mondo delle superfici. Sfida le nostre vite interiori e l’immagine idealizzata di noi stessi, disturbando i confini della personalità, dell’ego e dell’identità.
In ogni immagine, Michals dialoga con il mondo noumenale di Sartre (il mondo del subconscio, dei sogni), con l'”essere-in-sé”, dove Sartre vede l’uomo fuori dalla sua comfort zone.
È a questo che Michals si dedica, a un esame dell’in-sé che ha un impatto sulla nostra comprensione poetica interna dello spazio e del tempo. Nei suoi immaginifici sogni ad occhi aperti Michals propone una “liberazione verso le cose“, l’intravedere una coesistenza tra un modo di percepire conscio e inconscio che permette di vedere la “cosa in sé”.
Nelle sue sequenze fotografiche narrative multi-immagine, che presentano in modo controverso le didascalie poetiche di Michal sulle fotografie stesse, Michals fa crollare la divisione tra il fotografo e lo spettatore attraverso la mano scarabocchiata visibile dell’artista, contrastando il teorizzato “senso dell’irraggiungibile” di Sontag.
La sequenza che, forse è emblematica del modo di “narrare” di Michals è “The man in the room” (1975).
Per quanto riguarda l’aspetto visivo, è equivoco ciò che la sequenza cerca di presentare e ciò che vuole che guardiamo. C’è a malapena un evento, a parte il movimento della telecamera. L’insoddisfazione della visione (“non succede nulla!”) riorienta l’attenzione dello spettatore verso i testi scritti a mano. Le frasi costituiscono un monologo scritto dal soggetto che confessa il suo stupore nell’incontrare un amico morto nella stanza. A questo punto, lo spettatore può pensare che l’uomo ripreso nelle fotografie sia l’amico morto di cui si parla nel testo scritto. perché l’uso comune della didascalia favorisce l’identificazione tra il soggetto parlante del testo e l’amico morto.
Ma subito subentra l’identificazione tra il soggetto parlante del testo e il soggetto osservatore dalla cui prospettiva è costruita l’immagine, cioè il fotografo. Qui emerge la prima domanda: se l’uomo nella fotografia è morto, questa immagine non può essere una fotografia in sé. Altrimenti, come è possibile fotografare un fantasma? Man mano che la sequenza procede, il soggetto parlante rimane perplesso di fronte allo specchio, che non riflette la sua immagine, e si rende conto che non è altri che lui stesso ad essere morto. Sapere che l’uomo nelle fotografie non è uno spettro, non allevia la confusione dello spettatore. A questo punto la seconda domanda affiora alla mente: se il soggetto che scrive è un fantasma, non può essere la stessa persona del fotografo, cioè Duane Michals, che ha premuto l’otturatore e ha realizzato queste immagini. Una persona morta non può scattare fotografie!
Questo pensiero cancella la modalità abituale di lettura di un’immagine accompagnata dalle parole, rompendo la precedente identificazione tra il fotografo e il soggetto parlante. Inoltre, si scopre che il soggetto parlante del testo aveva segretamente desiderato l’uomo delle fotografie, sebbene avesse un’amante di nome Helen.
Ancora un’altra domanda, quindi, si aggiunge alla confusione già disperata dello spettatore: la persona morta era un omosessuale, che desiderava l’uomo delle fotografie sebbene avesse una relazione con una certa Helen.
A tutti i livelli dell’esperienza, la sequenza di fotografie minaccia la convinzione abituale del valore di verità della rappresentazione fotografica, l’aspettativa della sincronizzazione tra immagini e testi, e infine la fiducia dello spettatore nella propria identità.
Ogni fotografia della sequenza di Michals attiva l’esperienza trasgressiva in senso foucaultiano, che ispira la reinvenzione del sé scuotendo il nucleo della propria soggettività.
Scrive Foucault: “Se Duane Michals ha fatto spesso ricorso alle sequenze, non è perché vede in esse una forma capace di conciliare l’istantanea della fotografia con la continuità del tempo per raccontare una storia. Piuttosto, è per dimostrare con la fotografia che, sebbene il tempo e l’esperienza continuino a giocare insieme, non appartengono allo stesso mondo. Il tempo può portare cambiamenti, invecchiamento e morte, ma il pensiero-emozione è molto più forte del tempo; il pensiero-emozione, solo lui, può vedere e mostrare le rughe invisibili del tempo.”
È proprio questa la grande abilità di Michals come artista e come essere umano; le sue immagini ci permettono di accedere al mistero della nostra esistenza.
Michele Di Donato
Con la terza parte si conclude questa intensa ricerca di Michele Di Donato su Duane Michals. Ringrazio Michele per l’impegno profuso che ci ha portato a scoprire, con una bella profondità, questo autore sconosciuto ai più che però ha tanto da dare ai fotografi di oggi.
Duane Michals si colloca tra i precursori dell’opera concettuale costituita da serie di immagini che ci parlano spesso con l’ambientazione strutturata secondo una gabbia simbolica la quale pone in evidenza i processi di senso che il fotografo mette in atto.
Oggi consociamo bene questo stile concettuale tanto da vederlo diffusamente sui tavoli di portfolio.
Quando lui lo ha ideato aveva il profumo della sperimentazione. Altro concept da lui praticato che oggi è molto sentito è la Narrative Art che vede un testo scritto di pugno a didascalia delle immagini.
E’ bello capire da chi provengono i linguaggi che oggi noi pratichiamo. Complimenti a Michele Di Donato per aver condiviso le sue conoscenze con un piacevole linguaggio che ci ha attirato a seguire tutte le sue tre parti. Agorà Di Cult è lo spazio per questo genere di esercizio e condivisione.